La commedia, composta fra l'aprile e il maggio del 1923, riprende e pone in
discussione un episodio del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore,
pubblicato con il titolo Si gira nel 1915: il tragico triangolo sentimentale fra
il pittore Giorgio Mirelli, l'Attrice russa Varia Nestoroff e il barone Aldo
Nuti. La prima rappresentazione, avvenuta il 22 o 23 maggio 1924 fu preceduta da
un battage pubblicitario orchestrato dall'autore, che in un'intervista
rilasciata a «Comoedia» il 15 gennaio aveva alimentato la curiosità sull'opera
definendola «la più strana, la più imbrogliata, la più difficile a capirsi fra
tutte le mie commedie»; e, poco prima dell'apparizione sulle scene ne aveva
fatto pubblicare il testo nel vol. IX delle Maschere nude per provocare un
anticipato giudizio dei critici da poter riprendere nel «Primo intermezzo
corale» della commedia.
Ciascuno a suo modo, dice una didascalia, è una commedia a chiave, «costruita
cioè dall'autore su un caso che si suppone realmente accaduto e di cui si siano
occupate di recente le cronache dei giornali: il caso della Moreno, del barone
Noti e dello scultore Giacomo La Vela che si è ucciso per loro»; lo stesso
triangolo dei Quaderni con due nomi mutati. L'azione inizia all'esterno del
teatro in cui gli spettatori saranno informati da un «Giornale della Sera» della
scandalosa trovata di Pirandello di ispirarsi a un fatto di cronaca e delle
sgradevoli ripercussioni che potrebbe avere sul corso della serata. Inoltre, fra
il botteghino e il ridotto, sono presenti due protagonisti del tragico caso,
l'attrice Amelia Moreno e il barone Noti, intervenuti, la prima per misurare
«fin dov'è arrivata la tracotanza dello scrittore», il secondo per rivedere la
donna a cui si sente tuttora legato. Il sipario si alza sul salone dell'antico
palazzo nobiliare di donna Livia Palegari al termine di un ricevimento. Donna
Livia è preoccupata per il figlio Doro che la sera precedente, in casa di amici,
nel corso di una discussione con l'amico Francesco Savio, ha preso le difese
dell'attrice Delia Morello (l'attrice Moreno, nella presunta realtà), rivelando
la propria inclinazione verso una donna di dubbi costumi. Doro Palegari ha
sostenuto che l'attrice, alla vigilia delle nozze con il giovane pittore Giorgio
Salvi (nella realtà lo scultore Giacomo La Vela) si era data a Michele Rocca (il
barone Aldo Nuti del fatto di cronaca), amico e futuro cognato di Salvi, proprio
nell'interesse del fidanzato, per dissuaderlo, in modo traumatico, da un
matrimonio che lo avrebbe reso infelice, senza prevederne certo il gesto
suicida. L'opinione di Savio, invece, è che la donna abbia agito con deliberata
perfidia verso il fidanzato. Doro intanto, riflettendo sulla discussione della
sera precedente, ha rivisto il suo giudizio e si è convinto della giustezza
delle posizioni dell'amico Francesco. Ma Savio, sopraggiunto in casa Palegari,
dichiara di aver mutato a sua volta opinione e di essere rammaricato del
diverbio. I due amici si ritrovano ancora in conflitto, ma su posizioni
invertite.
Doro, sentendosi provocato, dà del «pagliaccio» all'amico e viene sfidato a
duello. Delia Morello, intanto, si reca da Doro per ringraziarlo della generosa
difesa assunta nei suoi riguardi e per essere stata compresa nel profondo. Doro
le ripete però le accuse di perfidia sostenute contro di lei da Francesco Savio
e che lui stesso ha finito per condividere, lasciandola perplessa circa i veri
motivi del suo comportamento. La donna, in ogni caso, intende evitare un duello
assurdo. Tanto assurdo che Doro, alla fine del primo atto, si chiede perché
dovrà battersi: «Ma perché? Per una cosa che nessuno sa quale sia, come sia: ne
io, né quello - e nemmeno lei stessa!». Segue, nel corridoio che conduce al
palcoscenico, il «Primo intermezzo corale» in cui si confrontano le opinioni dei
critici e degli spettatori sullo spettacolo, «qualcuno favorevole» e «molti
contrari». Tra gli spettatori si inseriscono prima il barone Noti, che protesta
perché in teatro, quella sera, si è insegnato «a calpestare i morti e a
calunniare i vivi», e poi la Moreno, che vorrebbe andare in palcoscenico per
punire l'infamia di quello spettacolo indecoroso.
Il secondo atto si apre in una sala di casa Savio, dove Francesco si prepara al
duello assistito da un maestro di scherma e dai padrini. Sui fatti accaduti e
sui repentini cambiamenti di opinioni interviene Diego Cinci, amico di entrambi
i contendenti e portavoce del «pirandellismo» dell'autore. Cinci - che, nello
sforzo di comprendere gli uomini, si è ridotta «l'anima, a furia di scavare, una
tana di talpa» - sostiene che la vita è «una tale rapina continua, che se non
han forza di resistervi neppure gli affetti più saldi, figuratevi le opinioni le
finzioni che riusciamo a formarci, tutte le idee che appena appena, in questa
fuga senza requie, riusciamo a intravedere!». Viene annunciata intanto la visita
di Delia che, determinata a scongiurare lo scontro, è ricevuta da Francesco
Savio. Sopraggiunge poi Michele Rocca, «macerato dai rimorsi e dalla passione»,
il quale fornisce una diversa versione dell'accaduto. Era stato lui a prendere
l'iniziativa di sedurre Delia, per dimostrare all'amico Giorgio «la pazzia che
stava per commettere» sposandola e assicura che lo stesso Salvi lo aveva sfidato
a dargli la prova della leggerezza della donna promettendogli «che avuta la
prova, si sarebbe allontanato da lei, troncando tutto. - E invece, si uccise!».
Intanto Francesco Savio, dopo il colloquio con l'attrice, fra le proteste dei
padrini decide di rinunciare al duello. Ecco che riappare in scena Delia;
Michele, «quasi gemendo» la invoca e, tra lo stupore dei presenti, i due amanti
«s'abbracceranno freneticamente», scoprendo «la segreta violenta passione da cui
forsennatamente fin dal primo vedersi l'uno e l'altra sono stati attratti e
presi, e che han voluto mascherare davanti a sé stessi di pietà e di interesse
per Giorgio Salvi, gridando d'aver voluto, ciascuno a suo modo e l'una contro
l'altro, salvarlo».
Nel «Secondo intermezzo corale», ancora nel stesso corridoio del teatro, si
sparge la voce che Amelia Moreno ha schiaffeggiato la prima attrice perché si è
riconosciuta nel personaggio di Delia Morello e si dice che abbia schiaffeggiato
anche l'Autore. Si scatena un putiferio.
Gli attori sono intenzionati ad abbandonare il teatro per protesta, mentre il
Direttore del Teatro e l'Amministratore della Compagnia tentano inutilmente di
trattenerli. Tra la folla il barone Nuti protesta gridando: «Due cuori alla
gogna! Due cuori che sanguinano ancora, messi alla gogna!»; e, scorgendo la
Moreno - che da parte sua si è lamentata con il Capocomico per l'orrore di
essersi vista rappresentata sulla scena -, le si lancia incontro scongiurandola
di tornare con lui. La donna tenta di divincolarsi ma poi gli si abbandona,
facendo senza volerlo - osserva Uno spettatore intelligente - «quello che l'arte
aveva preveduto». Al Capocomico non resta che licenziare il pubblico perché «la
rappresentazione del terzo atto non potrà più aver luogo». Soluzione obbligata
perché come in uno psicodramma, i protagonisti del fatto di cronaca, vedendosi
rappresentati dall'arte, ne hanno ripetuto le sequenze prendendo coscienza della
loro passione. Se prima l'arte si è ispirata alla cronaca, in un'indissolubile
circolarità, è poi la vita a imitare l'arte, spiegandosi a se stessa.
La prima messinscena allestita nel 1924 a Milano, dalla Compagnia Niccodemi -
con Vera Vergani, Luigi Cimara (nei doppi ruoli di Moreno-Morello e di
Nuti-Rocca) e Sergio Tofano ("attore brillante", nella parte di Diego Cinci) -
ebbe, in complesso, accoglienza favorevole. Nello stesso anno la commedia fu
replicata a Torino e a Roma. Una ripresa di una sola sera, il 26 gennaio 1928,
si ebbe al Politeama Giocosa di Napoli a cura del Teatro d'Arte diretto da
Pirandello, con Marta Abba, Tina Abba, Rodolfo Martini, Flavio Diaz, Lamberto
Picasso e le scenografie di Virgilio Marchi. Al 1961 risale un nuovo
allestimento curato da Luigi Squarzina.
La critica ha espresso riserve su questo testo: Domenico Lanza definì subito i
personaggi della commedia «un'accolta di morbosi cerebrali, pazzi o semipazzi,
decadenti della volontà, tormentatori di sé e degli altri, svuotati d'ogni
persuasiva umanità e congegnati artificialmente con puri meccanismi dialettici»;
Gaspare Giudice, tra gli studiosi più recenti, considera Ciascuno a suo modo
un'«abilissima manipolazione del disordine (o normalizzazione del disordine) che
si fa pura bravura».
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