Nel 1922, con il progetto delle Novelle per un anno, Pirandello pose mano alla
sistemazione definitiva del vasto patrimonio novellistico accumulato dal 1894,
quando aveva pubblicato un primo volume di tre novelle con il titolo Amori senza
amore. Erano seguite tredici raccolte: nel 1902 Beffe della morte e della vita e
Quand'ero matto; nel 1904 Bianche e nere e Erma bifronte; nel 1910 La vita nuda;
nel 1912 Terzetti; nel 1914 Le due maschere; nel 1915 La trappola e Erba del
nostro orto; nel 1917 E domani, lunedì...; nel 1918 Un cavallo nella luna; nel
1919 Berecche e la guerra e Il carnevale dei morti.
In un'«Avvertenza» alle Novelle per un anno Pirandello prometteva: «Un novella
al giorno, per tutt'un anno, senza che dai giorni, dai mesi o dalle stagioni
nessuna abbia tratta la sua qualità». Una promessa mancata perché nel 1936, anno
della sua morte, il computo complessivo dei testi rimase ben lontano dalla cifra
canonica dei giorni dell'anno. Intento alla produzione teatrale, occupato
nell'attività di capocomico del «Teatro d'Arte», nelle tournées e nei lunghi
soggiorni all'estero, l'autore poté aggiungere appena trentuno novelle alle
duecentodieci già pubblicate, non realizzando il progetto di un corpus di
ventiquattro volumi. Ne uscirono infatti solo quindici: i primi tredici, dal
1922 al 1928, furono pubblicati a Firenze; gli ultimi due a Milano negli anni
1934 e 1937. I volumi, che ricevono il titolo dalla prima novella di ognuno,
uscirono in questa sequenza: nel 1922, Scialle nero, La vita nuda, La
rallegrata, L'uomo solo; nel 1923, La mosca, In silenzio; nel 1924, Tutt'e tre;
nel 1925, Dal naso al cielo, Donna Mimma; nel 1926, Il vecchio Din; nel 1928, La
giara, Il viaggio, Candelora; nel 1934, Berecche e la guerra; nel 1937, postumo,
Una giornata; nel 1938 fu pubblicata un'Appendice di novelle accantonate,
successivamente accresciuta.
Nel 1922 Pirandello, raccogliendo in «un sol corpo» tutte le novelle fino ad
allora edite, sconvolgeva ogni ordine precedente di pubblicazione al punto che,
nel primo volume delle Novelle per un anno, inserì per esempio, testi apparsi
nell'arco di oltre un ventennio, dal 1894 al 1920. La critica finora non ha
fornito risposte plausibili ai quesiti relativi ai criteri di selezione adottati
dall'autore e ai rapporti fra il microtesto delle novelle e il macrotesto dei
vari volumi dell'intero corpus. Certo, nel riordinare tutto il patrimonio
novellistico, rivisto anche nella lingua, Pirandello intendeva attribuire
carattere di atemporalità al suo messaggio letterario e suggerirne una fruizione
sincronica, convinto del radicamento ontologico della condizione umana di cui i
personaggi sono immutabili «specchi». Se nell'arco temporale dello svolgimento
dell'opera pirandelliana non è mutata l'amarezza della visione, la scrittura
tuttavia, sensibile al momento culturale, ha inciso sulla fisionomia del
personaggio i segni di stagioni diverse, e se prima ne ha calcato i tratti, già
marcati dal tardo naturalismo, con una cosmesi espressionistica, poi, nelle
ultime novelle, li ha sfumati nei profili labili ed evanescenti suggeriti dal
surrealismo. La lettura sincronica dei testi, così come l'autore ha voluto
disporli, non evidenzia questi mutamenti di scrittura; bisogna scegliere la
linea diacronica della pubblicazione (in mancanza di dati certi relativi
all'anno di composizione) per recuperare lo sviluppo degli elementi formali e di
contenuto occultati nella progettazione labirintica della raccolta del 1922. Un
percorso non agevole, ma che consente di ricomporre anche alcuni tratti
autobiografici che l'autore, più che ad altre opere, affidò alle Novelle per un
anno.
Considerate nell'originaria sequenza temporale di pubblicazione, undici delle
prime tredici novelle appaiono così strutturate attorno al tema amoroso, lo
stesso che ispira L'esclusa, il romanzo composto nel 1893. Le vicende
sentimentali dei personaggi sono umoristicamente «amori senza amore», amori
inibiti, frustrati, traditi, brutalizzati dalla gelosia, spezzati, sublimati
nella memoria, ma pur sempre voce di inestinguibile ansia di vivere. Dal 1884
(data di pubblicazione del bozzetto Capannetta), al 1911, cinquantuno novelle su
centotrenta sono ancora riconducibili al tema amoroso, ma tra le ultime
pubblicate dal 1921 al 1936, in sintonia con l'incrudirsi del pessimismo,
ventuno su trentadue risultano dettate dall'angoscia della morte, della malattia
e della vecchiaia, dolorosa età in cui, smessi l'amore, la speranza e il
desiderio, non è dato di «vedere ancora sopportabile il mondo». La ricerca
diacronica dà ancora altri frutti; consente per esempio di ricomporre sette
novelle di un polittico, smembrato in vari volumi, ispirato alla grande guerra:
Berecche e la guerra, Frammento di cronaca di Marco Leccio, Colloquii coi
personaggi, La camera in attesa, Quando si comprende Jeri e oggi (integrazione
della precedente) e Un goy. In esse l'autore appare diviso tra la passione
interventista, alimentata dalle tradizioni risorgimentali della famiglia,
l'orrore per le inevitabili atrocità belliche e la filosofica contemplazione
degli eventi, in una lontanante prospettiva storica. Gli anni del primo
conflitto mondiale, per la prigionia del figlio Stefano internato a Mauthausen,
per il concomitante peggioramento della salute mentale della moglie e per la
morte della madre, segnarono profondamente Pirandello. La tragedia della guerra
accelera infatti il dissolvimento della poetica dell'umorismo in cui il
«sentimento del contrario» scopriva, sotto facili occasioni di riso, risvolti
dolorosi che, smorzandolo, lo rendevano perplesso e consapevole. Attingendo la
cognizione del dolore, l'umorismo ne prendeva anche le distanze e, attraverso
una risata senza gusto, in qualche modo se ne difendeva. Nello strazio
quotidiano del «macello grande» della guerra, invece, nessun filtro può più
eludere ormai il confronto doloroso con le sventure e le affligenti ragioni
della realtà, che scompaginano le fittizie difese opposte dall'umorismo. Ogni
residua componente conoscitiva del reale, presente nella poetica umoristica, pur
attraverso la schermatura caricaturale dei personaggi e la carnevalizzazione
delle situazioni, si dissolve nella funzione consolatoria assegnata all'Arte.
Ispirate alla stanchezza di una coscienza vinta dall'inevitabilità ontologica
della sofferenza, le novelle successive alla guerra vanno oltre le tematiche che
avevano connotato le novelle precedenti. E se prima il personaggio, vulnerato
dal rapporto, familiare o sociale, tradito nel proprio fiducioso candore
dall'opportunismo e dall'ipocrisia degli altri, attivava procedure difensive
variate, di tono esasperato e paradossale, ponendosi in posizione di
irriducibilità antagonistica, nelle novelle più tarde si aprono spiragli di
solidale partecipazione. Si pensi al contrasto che oppone nella Giara (1909) il
possidente don Lollò Zirafa e il conciabrocche zi' Dima Licasi, o nella Patente
(1911) alla grottesca determinazione dello scritturale Chiàrchiaro di fronte
alla «schifosa umanità» dei compaesani, che gli hanno attribuito la trista nomea
di iettatore; e si consideri il rapporto di umana cordialità che si stabilisce
invece nella Cattura (1918), fra gli sprovveduti autori del sequestro di un
vecchio possidente e la vittima, o in Sedile sotto un vecchio cipresso (1924)
l'incontro terminale di due personaggi divisi da antico odio feroce e, allo
stremo per le infermità e per la vecchiaia, riavvicinati forse da una «disperata
pietà». Nelle ultime novelle il rapporto del personaggio con il mondo esterno,
rarefatto e angoscioso, si traduce in un contatto alienante di chi si sia
smarrito in un luogo che non conosce o non riconosce, come accade all'anonimo
passeggero di Una giornata (1936). Dal momento che la realtà non è più il
referente sicuro della rappresentazione, la lingua delle ultime novelle attenua
la sua funzione referenziale, per farsi tramite terso e interiore di una
comunicazione puramente emotiva. Ma, prima di decantarsi in queste tarde prove
narrative, la lingua di Pirandello era connotata, nella mimesi naturalistica del
parlato, da un intarsio sapiente di un lessico di voci e locuzioni siciliane
accortamente italianizzate e di numerosi e insospettati toscanismi. Un tessuto
linguistico composito, impreziosito, per mano di un filologo laureato, anche di
vocaboli consacrati dalla tradizione letteraria, ma tramati con tale levità e
misura da suggerire l'impressione di un proposito antiletterario.
Nelle Novelle per un anno gli spazi d'azione del personaggio coincidono con
quelli vissuti o frequentati dall'autore: Girgenti con la contrada natale del
Caos, la marina di Porto Empedocle, i paesi dell'entroterra agrigentino, e Roma,
la città di elezione. Girgenti e Roma danno un contributo diverso alla casistica
delle situazioni narrative. Girgenti, «vecchia cittaduzza di circa
venticinquemila abitanti, gente terrigna, cotta dal sole, piena di pregiudizii,
ombrosa diffidente, violenta e, nello stesso tempo rilassata», è il primo teatro
del mondo di cui Pirandello è stato partecipe spettatore. È la terra di cui ha
studiato la fonetica per la dissertazione di laurea all'Università di Bonn, è
l'ambiente umano di cui ha indagato i caratteri e il costume mentale spinto,
come ha notato Leonardo Sciascia, «fino al delirio dalla passione del
"ragionare"». La stessa attitudine mentale che tormenta i personaggi ostinati
nel ricercare una soluzione dei loro casi. I guai dei personaggi di area
agrigentina o siciliana, secondo una tipologia verista, sono legati alle sorti
della roba, minacciata da soci infidi e speculatori, da improvvidi investimenti
o da avversa congiuntura. I protagonisti di questo epos patrimoniale di
provincia sono possidenti terrieri, proprietari di zolfare, affittuari,
appaltatori, titolari di banche locali e usurai, tutti oppressi dall'alea della
rovina economica e dell'emarginazione sociale. Sul versante della lotta per la
sopravvivenza e dello stento quotidiano figurano contadini, garzoni, zolfatari,
carusi, scritturali e quegli infelici su cui la collettività scarica il peso di
paure inconsce, gli iettatori. È presente anche il ceto politico delle camarille
paesane, rappresentato da clericali, governativi, socialisti e da qualche
svilito superstite della generazione garibaldina.
Fallimenti esistenziali, incomunicabilità, solitudine e disperazione connotano
l'area urbana di Roma, allargata dal centro storico ai nuovi quartieri Prati e
Nomentano. La stratificazione sociale dei personaggi romani è variata: accanto a
qualche esemplare del mondo parlamentare e accademico, si colloca un vasto
campionario di funzionari e impiegati ministeriali, di scrivani e computisti, di
pensionati, di aspiranti frustrati alla gloria letteraria e artistica, e poi
sarte, commesse, balie, canzonettiste di infimi caffè-concerto, infelici
costrette talvolta a prostituirsi per bisogno. Tutti soggetti accomunati dal
grigiore esistenziale e da un'arrovellata problematica disgregante. Non diverso
il profilo dei personaggi còlti in altri ambienti: nei Castelli romani, a
Soriano nel Cimino nel Viterbese, a Chianciano, in qualche borgo dell'Umbria, a
Coazze in Valsusa o fuori d'Italia, a Bonn e a New York, luoghi con cui, in
occasioni varie si è incrociata la biografia dello scrittore. La geografia
connota solo parzialmente il personaggio, è piuttosto la sua tipologia
esistenziale a imporsi all'ambiente. Ovunque Pirandello ha cercato e trovato il
tipo e le situazioni per dar corpo al suo amaro senso della vita dato che,
confessa nella «Prefazione» ai Sei personaggi in cerca d'autore, ha la
«disgrazia» di appartenere agli «scrittori di natura più propriamente
filosofica» i quali, rispetto a quelli di natura storica, «sentono un più
profondo bisogno spirituale, per cui non ammettono figure, vicende, paesaggi che
non si imbevano, per così dire, d'un particolare senso della vita».
Le novelle pertanto, in linea con queste affermazioni di poetica, non sono pura
rappresentazione di fatti, ma contestuale riflessione su di essi: contengono
cioè quegli elementi speculativi giudicati spuri da Croce, ma da Pirandello
ritenuti organici all'arte umoristica in cui la riflessione, innestata nell'atto
creativo, smorza il moto spontaneo del riso suscitato dai casi più speciosi. Non
sarà inopportuno allora, secondo le inclinazioni dichiarate dall'autore e
superando l'antico pregiudizio crociano, riconoscere nelle Novelle per un anno
degli umoristici contes philosophiques che, con le impurità del vissuto
riflettono sullo scacco dell'individuo dinanzi alle oscure finalità
dell'esistenza non stenebrate dai deboli lumi della ragione positivistica. Il
carattere emblematico delle Novelle per un anno nell'intera produzione
pirandelliana e insieme le ragioni della loro fortuna sono stati sottolineati da
Giovanni Macchia: «Leggendo queste novelle l'una dietro l'altra non s'intravvedono
tappe possibili per cui il caos, il caos pirandelliano, diventi cosmo, ma
soltanto figurazioni apparenti di un falso cosmo che quasi ineluttabilmente
ricominci ad essere caos».
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