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Luigi Pirandello



QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO, OPERATORE: Romanzo


Nel primo dei sette quaderni che compongono il romanzo Serafino Gubbio, l'io narrante, precisa il suo ruolo nel mondo del cinema: «Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare. Io non opero nulla». Più avanti aggiunge: «Soddisfo, scrivendo, a un bisogno, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità». I Quaderni registrano in forma di diario, con frequenti recuperi e scarti della memoria, la fluidità di un'esperienza professionale di cui è titolare passivo il protagonista, portato per la sua formazione filosofica allo studio degli altri per coglierne l'oltre acquattato nel profondo. Un di là da se stessi che gli uomini comuni non percepiscono e che in certi momenti si manifesta, turbandoli, al di fuori del linguaggio e dei comportamenti consueti. Serafino Gubbio, napoletano, con il «baco in corpo della filosofia», avvalendosi di una modesta eredità, a ventisei anni aveva intrapreso gli studi universitari in Belgio. Tornato a Napoli, si era abbandonato a una «vita da scapigliato» fra giovani artisti, fino a esaurire il piccolo patrimonio. Una rigida sera di novembre Serafino Gubbio giunge a Roma «con scarse speranze» e, in cerca di alloggio, si imbatte in un vecchio amico sardo, Simone Pau, che lo conduce a Borgo Pio nel suo albergo, un Ospizio di Mendicità, dove, malgrado la tristezza del luogo, Serafino accetta di restare. L'indomani inizia la sua grottesca avventura.

All'ospizio arriva una troupe di attori della Casa cinematografica La Kosmograph per la ripresa «di un interno dal vero» nell'asilo notturno. La troupe è guidata dal direttore di scena Nicola Polacco, amico d'infanzia e compagno di studi di Serafino. Polacco gli offre un lavoro di operatore alla Kosmograph, un ruolo su misura per chi, estraniato da tutto e da se stesso, ha raggiunto la «perfetta impassibilità» e può agevolmente ridursi a «una mano che gira la manovella» della macchina da presa. Serafino accetta l'impiego anche perché, per il suo studio dell'umanità, vuole osservare da vicino il comportamento di una delle attrici della troupe in cui ha riconosciuto Varia Nestoroff, un'inquietante avventuriera russa, che, con la sua rapace personalità aveva distrutto la vita di persone a lui care. Varia Nestoroff era stata infatti fidanzata di un giovane pittore di Sorrento, Giorgio Mirelli, a cui Serafino, quando era ancora studente, aveva impartito lezioni private. Giorgio viveva con la nonna e la sorella Lidia, fidanzata ad Aldo Nuti, giovane aristocratico napoletano, attore dilettante e amico del fratello. Alla vigilia delle nozze tra Giorgio e Varia, Aldo Noti, per dimostrare all'amico l'indegnità della donna che sta per sposare, diviene l'amante di Varia. Giorgio, ferito dal tradimento, si uccide. L'orrore del tragico evento allontana i due amanti. Ma Aldo Nuti, diviso tra amore e odio per la donna - che intanto è divenuta prima attrice della Kosmograph - per riavvicinarla si fa scritturare come attore dalla Casa cinematografica. La Nestoroff è ora l'amante di un attore siciliano, Carlo Ferro, uomo rozzo e violento che la brutalizza. I rapporti di Varia con gli uomini sono oggetto di particolare studio da parte di Serafino Gubbio che osserva: «Nemici per lei diventano gli uomini, a cui ella s'accosta, perché la aiutino ad arrestare ciò che di lei le sfugge: lei stessa, sì, ma quale vive e soffre, per così dire, di là da se stessa». Ma gli uomini a cui si accosta, affinché la aiutino a comprendere il suo oltre, la deludono perché mostrano di desiderare solo il suo corpo e allora per vendicarsi e «per mostrar loro in quanto dispregio tenga ciò che essi sopra tutto pregiano in lei», si offre a uomini indegni come Carlo Ferro.

La donna insegue con tormento l'«ossessa che è in lei», da cui si sente dominata e che si manifesta enigmaticamente nella sua immagine «alterata e scomposta» che appare sullo schermo, «Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce». Alla Kosmograph si prepara un nuovo film di soggetto indiano, La donna e la tigre, con una scena finale molto rischiosa, in cui un cacciatore dovrà affrontare una tigre - un feroce esemplare acquistato dalla Casa cinematografica - e abbatterla. Il ruolo del cacciatore è affidato a Carlo Ferro, ma all'ultimo momento Aldo Nuti ottiene di sostituirlo. L'attore, seguito da Serafino Gubbio con la sua macchina da presa, entra in una grande gabbia, le cui sbarre sono state coperte di tronchi e fronde per simulare la giungla; attorno al set Varia Nestoroff e altri attori assistono alla scena. Al «si gira», nella gabbia viene introdotta la tigre; Aldo Noti imbraccia il fucile, ma rivolge la mira, attraverso uno spiraglio tra le sbarre, sulla Nestoroff che cade fulminata; la tigre si lancia su Nuti e lo sbrana prima di essere abbattuta. A Serafino, che con impassibile professionalità aveva ripreso la scena, la voce, per il terrore gli «s'era spenta in gola, per sempre». Il film, per la morbosa curiosità suscitata dalla «volgare atrocità del dramma», sarà un successo e Serafino, ridotto a un «silenzio di cosa», acquisterà l'agiatezza, ma continuerà « - solo, muto e impassibile - a far l'operatore». Per comunicare con gli altri uomini, che riceveranno «sicura ospitalità» nel suo silenzio, non gli resta che «una penna e un pezzo di carta», l'esercizio della scrittura.

Il romanzo ha offerto alla critica varie chiavi di lettura: dalla polemica, dichiarata dall'autore, contro «la Macchina che meccanizza la vita» schiavizzando l'uomo, a quella contro la cinematografia nascente che, con la sua riproducibilità tecnica, comporta, rispetto al teatro, la perdita dell'atmosfera irripetibile della sua autenticità. Per altri la vicenda di Serafino Gubbio rappresenta invece la metafora dell'impassibilità dell'arte. Per Giacomo Debenedetti, la materia fluida non riducibile all'univocità dei personaggi dei Quaderni di Serafino Gubbio, connota l'opera come «un romanzo da fare» con una tematica centrale, quella dell'oltre, che costituisce «il problema tipico dell'arte espressionistica». I Quaderni sono pertanto «una negazione di quel romanzo fatto che era il romanzo naturalista, sono poi anche con il loro impianto ideologico, una condanna senza appello della narrativa naturalistica».

 

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