Nel primo dei sette quaderni che compongono il romanzo Serafino Gubbio, l'io
narrante, precisa il suo ruolo nel mondo del cinema: «Sono operatore. Ma
veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica
dire operare. Io non opero nulla». Più avanti aggiunge: «Soddisfo, scrivendo, a
un bisogno, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità». I Quaderni
registrano in forma di diario, con frequenti recuperi e scarti della memoria, la
fluidità di un'esperienza professionale di cui è titolare passivo il
protagonista, portato per la sua formazione filosofica allo studio degli altri
per coglierne l'oltre acquattato nel profondo. Un di là da se stessi che gli
uomini comuni non percepiscono e che in certi momenti si manifesta, turbandoli,
al di fuori del linguaggio e dei comportamenti consueti. Serafino Gubbio,
napoletano, con il «baco in corpo della filosofia», avvalendosi di una modesta
eredità, a ventisei anni aveva intrapreso gli studi universitari in Belgio.
Tornato a Napoli, si era abbandonato a una «vita da scapigliato» fra giovani
artisti, fino a esaurire il piccolo patrimonio. Una rigida sera di novembre
Serafino Gubbio giunge a Roma «con scarse speranze» e, in cerca di alloggio, si
imbatte in un vecchio amico sardo, Simone Pau, che lo conduce a Borgo Pio nel
suo albergo, un Ospizio di Mendicità, dove, malgrado la tristezza del luogo,
Serafino accetta di restare. L'indomani inizia la sua grottesca avventura.
All'ospizio arriva una troupe di attori della Casa cinematografica La Kosmograph
per la ripresa «di un interno dal vero» nell'asilo notturno. La troupe è guidata
dal direttore di scena Nicola Polacco, amico d'infanzia e compagno di studi di
Serafino. Polacco gli offre un lavoro di operatore alla Kosmograph, un ruolo su
misura per chi, estraniato da tutto e da se stesso, ha raggiunto la «perfetta
impassibilità» e può agevolmente ridursi a «una mano che gira la manovella»
della macchina da presa. Serafino accetta l'impiego anche perché, per il suo
studio dell'umanità, vuole osservare da vicino il comportamento di una delle
attrici della troupe in cui ha riconosciuto Varia Nestoroff, un'inquietante
avventuriera russa, che, con la sua rapace personalità aveva distrutto la vita
di persone a lui care. Varia Nestoroff era stata infatti fidanzata di un giovane
pittore di Sorrento, Giorgio Mirelli, a cui Serafino, quando era ancora
studente, aveva impartito lezioni private. Giorgio viveva con la nonna e la
sorella Lidia, fidanzata ad Aldo Nuti, giovane aristocratico napoletano, attore
dilettante e amico del fratello. Alla vigilia delle nozze tra Giorgio e Varia,
Aldo Noti, per dimostrare all'amico l'indegnità della donna che sta per sposare,
diviene l'amante di Varia. Giorgio, ferito dal tradimento, si uccide. L'orrore
del tragico evento allontana i due amanti. Ma Aldo Nuti, diviso tra amore e odio
per la donna - che intanto è divenuta prima attrice della Kosmograph - per
riavvicinarla si fa scritturare come attore dalla Casa cinematografica. La
Nestoroff è ora l'amante di un attore siciliano, Carlo Ferro, uomo rozzo e
violento che la brutalizza. I rapporti di Varia con gli uomini sono oggetto di
particolare studio da parte di Serafino Gubbio che osserva: «Nemici per lei
diventano gli uomini, a cui ella s'accosta, perché la aiutino ad arrestare ciò
che di lei le sfugge: lei stessa, sì, ma quale vive e soffre, per così dire, di
là da se stessa». Ma gli uomini a cui si accosta, affinché la aiutino a
comprendere il suo oltre, la deludono perché mostrano di desiderare solo il suo
corpo e allora per vendicarsi e «per mostrar loro in quanto dispregio tenga ciò
che essi sopra tutto pregiano in lei», si offre a uomini indegni come Carlo
Ferro.
La donna insegue con tormento l'«ossessa che è in lei», da cui si sente dominata
e che si manifesta enigmaticamente nella sua immagine «alterata e scomposta» che
appare sullo schermo, «Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce». Alla
Kosmograph si prepara un nuovo film di soggetto indiano, La donna e la tigre,
con una scena finale molto rischiosa, in cui un cacciatore dovrà affrontare una
tigre - un feroce esemplare acquistato dalla Casa cinematografica - e
abbatterla. Il ruolo del cacciatore è affidato a Carlo Ferro, ma all'ultimo
momento Aldo Nuti ottiene di sostituirlo. L'attore, seguito da Serafino Gubbio
con la sua macchina da presa, entra in una grande gabbia, le cui sbarre sono
state coperte di tronchi e fronde per simulare la giungla; attorno al set Varia
Nestoroff e altri attori assistono alla scena. Al «si gira», nella gabbia viene
introdotta la tigre; Aldo Noti imbraccia il fucile, ma rivolge la mira,
attraverso uno spiraglio tra le sbarre, sulla Nestoroff che cade fulminata; la
tigre si lancia su Nuti e lo sbrana prima di essere abbattuta. A Serafino, che
con impassibile professionalità aveva ripreso la scena, la voce, per il terrore
gli «s'era spenta in gola, per sempre». Il film, per la morbosa curiosità
suscitata dalla «volgare atrocità del dramma», sarà un successo e Serafino,
ridotto a un «silenzio di cosa», acquisterà l'agiatezza, ma continuerà « - solo,
muto e impassibile - a far l'operatore». Per comunicare con gli altri uomini,
che riceveranno «sicura ospitalità» nel suo silenzio, non gli resta che «una
penna e un pezzo di carta», l'esercizio della scrittura.
Il romanzo ha offerto alla critica varie chiavi di lettura: dalla polemica,
dichiarata dall'autore, contro «la Macchina che meccanizza la vita»
schiavizzando l'uomo, a quella contro la cinematografia nascente che, con la sua
riproducibilità tecnica, comporta, rispetto al teatro, la perdita dell'atmosfera
irripetibile della sua autenticità. Per altri la vicenda di Serafino Gubbio
rappresenta invece la metafora dell'impassibilità dell'arte. Per Giacomo
Debenedetti, la materia fluida non riducibile all'univocità dei personaggi dei
Quaderni di Serafino Gubbio, connota l'opera come «un romanzo da fare» con una
tematica centrale, quella dell'oltre, che costituisce «il problema tipico
dell'arte espressionistica». I Quaderni sono pertanto «una negazione di quel
romanzo fatto che era il romanzo naturalista, sono poi anche con il loro
impianto ideologico, una condanna senza appello della narrativa naturalistica».
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