«Ho finito la mia parabola in tre atti Così è (se vi pare)», scriveva Pirandello
al figlio Stefano, il 18 aprile 1917. La commedia, tratta dalla novella La
signora Frola e il signor Ponza, suo genero (pubblicata nello stesso aprile,
nella raccolta E domani, lunedì...), fu affidata alla Compagnia di Virginio
Talli e andò in scena il 18 giugno, all'Olympia di Milano, interpretata da
Annibale Betrone (Laudisi), Maria Melato (Frola), Ruggero Lupi (Ponza).
Pirandello ne scriveva alcuni giorni dopo alla sorella Lina: «E' stato veramente
un grande successo, non dico per gli applausi, ma per lo sconcerto e
l'intontimento e l'esasperazione e lo sgomento diabolicamente cagionati al
pubblico. Quanto ci ho goduto!».
Così è (se vi pare) comparve a stampa, con la definizione di «parabola», sulla
«Nuova Antologia», nel volume I della prima raccolta delle Maschere nude. Nel
1925 Pirandello modificò quasi ogni battuta, arricchì enormemente le didascalie
e inserì nuovi effetti comici, mostrando così di aver fatto proprie le
preoccupazioni sceniche espresse a suo tempo da Talli (quando questi gli
scriveva di «temere che manchi al lavoro, per la sua efficacia rappresentativa,
qualche difetto che forse lo farebbe trionfare»); e ne allestì una nuova
messinscena per il Teatro d'Arte con l'interpretazione di Egisto Olivieri (Laudisi)
Marta Abba (Frola), Lamberto Picasso (Ponza).
L'azione scenica è ambientata negli interni borghesi della casa del consigliere
Agazzi. La pettegola curiosità provinciale si appunta sul comportamento di un
nuovo impiegato dell'Agazzi (giunto da poco in città), scrutandolo con sguardo
implacabile e sospettoso, giudicandolo strano e facendolo oggetto di una vera e
propria investigazione.
L'impiegato, di nome Ponza, vive con la moglie all'ultimo piano di un caseggiato
periferico, mentre la suocera, signora Frola, abita in un elegante
appartamentino a fianco degli Agazzi. Ponza, al centro delle chiacchiere del
paese, appare a tutti come un «mostro» che impedisce alla Frola d'incontrare la
figlia, da lui tenuta chiusa a chiave in casa, e persino di ricevere la visita
degli Agazzi. Il consigliere si reca perciò dal Prefetto, esponendogli i fatti e
le relative dicerie, per avere «l'opportunità di chiarire questo mistero, di
venire a sapere la verità», come dice egli stesso, rincasando, a moglie e figlia
e ad altri conoscenti li riuniti. Questa sua affermazione suscita però il riso
del cognato, lo scettico Lamberto Laudisi, che difende i nuovi venuti dalla
«insoffribile» e «inutile» curiosità dei presenti, tentando di convincere
costoro dell'impossibilità di conoscere gli altri e, più in generale, la verità.
Le argomentazioni di Laudisi - in questa come in successive occasioni - sono
però recisamente rifiutate, con l'accusa che esse portano alla follia e dalla
follia sono originate.
La signora Frola, ora costretta a visitare gli Agazzi, è sottoposta al
«supplizio» di un vero e proprio «interrogatorio» sulla vita familiare sua e dei
suoi cari, già dolorosamente provati (tant'è che vestono tutti a lutto)
dall'ecatombe che un terremoto ha provocato nel loro paesino della Marsica. Per
«tentare una via di scampo», per sottrarre se stessa e loro all'inchiesta che li
investe, la Frola giustifica l'esagerata possessività del genero nei confronti
della moglie. Subito dopo il commiato della Frola, si presenta anche Ponza che,
costretto dalla posizione gerarchica, si scusa ma, nel contempo, protesta per la
«violenza» dell'indagine a cui è sottoposto e da cui si dice costretto a
rivelare, per evitare equivoci, il doloroso segreto della pazzia della signora
Frola. Ella è impazzita per la morte della figlia Lina, prima moglie di Ponza, e
si è convinta che Giulia, la seconda moglie di Ponza, sia sua figlia ancora in
vita. Ponza e la sua seconda moglie si prestano, caritatevolmente, a una
finzione che li costringe alla serie di precauzioni che hanno ingenerato i
sospetti del paese.
Sconcertati dalla rivelazione, i presenti si sentono tuttavia rassicurati dalla
spiegazione ricevuta, fino a quando, poco dopo, si ripresenta la signora Frola
che, accorgendosi di essere trattata come una povera pazza, si dice costretta a
rivelare ciò che prima aveva tentato di nascondere: il pazzo è Ponza, almeno per
quanto riguarda la convinzione che sua moglie Lina si chiami Giulia e sia una
seconda moglie. Alteratosi di mente per la lunga assenza da casa della moglie,
ricoverata in una casa di cura, Ponza, quando ella tornò, non la riconobbe e non
l'avrebbe più accolta in casa se non si fossero finte delle seconde nozze, come
se si fosse trattato di un'altra donna. Mentre tutti, sbalorditi, non sanno più
cosa pensare e a quale verità credere, prorompe il riso di Laudisi: una risata
che suggellerà anche gli atti successivi.
La ricerca delle prove che consentano di risolvere il mistero, avviata dal
consigliere Agazzi, dà l'occasione a Laudisi di illustrare il senso della
parabola pirandelliana: quando egli polemizza con la fiducia nell'oggettività
dei «dati di fatto» della realtà e sostiene la pari realtà del «fantasma» della
costruzione fantastica soggettiva e, quindi, l'insolubilità dell'enigma (prima
scena del secondo atto); quando dialoga con la propria immagine allo specchio,
il proprio doppio inconoscibile, il «fantasma» che tutti «portano con sé, in se
stessi», senza badarci, per andare «correndo, pieni di curiosità, dietro il
fantasma altrui» (terza scena del secondo atto); quando irride due signore
curiose per la loro ingenua, fiduciosa pretesa di conoscibilità del reale
(quarta scena del secondo atto). Per risolvere l'enigma, gli Agazzi fanno
incontrare, con uno stratagemma, genero e nuora mettendoli così a confronto. Ne
deriva una scena di concitata violenza in cui l'esasperato Ponza aggredisce la
Frola, rimproverandola di calunniarlo e gridandole che la figlia è morta. Appena
la donna si allontana, però, Ponza, immediatamente ricompostosi, si scusa del
«triste spettacolo» offerto, facendo intendere di aver recitato la parte del
pazzo - gridando la verità come se fosse una pazzia - proprio per mantenere
l'illusione in cui vive la Frola.
Nel terzo atto, dopo il definitivo fallimento della ricerca di prove certe tra i
pochi superstiti del terremoto, l'intervento del Prefetto costringe Ponza - che
protesta contro l'intollerabile «inquisizione accanita, feroce sulla sua vita
privata» - a condurre in casa Agazzi sua moglie, l'unica in grado di risolvere
l'enigma. La donna «in gramaglie, col volto nascosto da un fitto velo nero,
impenetrabile», premettendo che la sventura va tenuta nascosta perché il pietoso
rimedio sia efficace, afferma di essere la figlia della signora Frola e,
insieme, la seconda moglie del signor Ponza; per sé «nessuna»: «io sono colei
che mi si crede». La successiva battuta, seguita dalla già ricordata risata
conclusiva, è di Laudisi: «Ed ecco, o signori, come parla la verità! / Volgerà
attorno uno sguardo di sfida derisoria. / Siete contenti?».
L'interpretazione canonica riporta la parabola allo scettico relativismo
pirandelliano che, già formulato ed eretto a poetica nel saggio su L'umorismo,
troverà definitiva espressione in Uno, nessuno e centomila, che Pirandello stava
allora scrivendo e con il quale esistono significativi riscontri (per esempio,
nella scena di Laudisi allo specchio). La visione umoristica della vita qui
trasportata sulla scena, nel punto di vista di Laudisi - uno dei primi
personaggi ragionatori del teatro pirandelliano - implica elementi di critica al
positivismo e, insieme, di critica alla doxa e alla conseguente morale del
pubblico cui l'alter ego dell'autore rivolge la propria sfida derisoria. «Tutta
la mia opera è stata sempre così, e sarà così: una sfida alle sue opinioni e
soprattutto alla sua quieta morale... o immorale», aveva scritto Pirandello a
Talli.
La sottolineatura dell'accanita sopraffazione degli altri insita nel dogmatismo
delle opinioni correnti ha dato luogo alla lettura critica del
«teatro-inquisizione», del palcoscenico pirandelliano come «poliziesco luogo di
tortura, ove gli uni si fanno carnefici degli altri» (Giovanni Macchia). La
componente di critica filosofica, ideologica e sociale convive però con quella
fantastica, nell'intento di realizzare l'opera dell'umoristico «critico
fantastico» pirandelliano. Antonio Gramsci, nella sua cronaca teatrale
sull'«Avanti!» (5 ottobre 1917), colse appieno quest'intento: «parabola è un
qualcosa di misto tra la dimostrazione e la rappresentazione drammatica, tra la
logica e la fantasia» (un «misto» che però egli stroncò, in quell'occasione,
definendolo un «mostro»: né dramma né dimostrazione della tesi relativistica
che, per giunta, egli liquidò come «una sciocchezza»). Il «fantasma» di cui
parla Laudisi è anche quello dell'arte e lo conferma il termine stesso, al
centro di alcune ricorrenti riflessioni estetiche dell'autore; il «meraviglioso
supplizio d'aver davanti, accanto, qua il fantasma e qua la realtà, e di non
poter distinguere l'uno dall'altra» (di cui parla sempre Laudisi) va dunque
riferito anche all'illusione, alla verità fantastica, del teatro.
Straordinario il successo dell'opera all'estero, a partire dal 1924: Berlino,
Oporto, San Paolo. A Parigi (nella messinscena di Charles Dullin al Teatro
Atelier) l'opera segnò il culmine della fortuna di Pirandello in Francia,
intrecciata alle vicende del cosiddetto "pirandellismo". Tra gli innumerevoli
allestimenti italiani sono da ricordare almeno quelli di Orazio Costa (1952),
Giorgio De Lullo (1972), Massimo Castri (1979), Giancarlo Sepe (1982).
|