I precedenti narrativi della commedia sono riconducibili a due novelle, La
tragedia di un personaggio (1911) e Colloqui coi personaggi (1915); ma la fonte
diretta è l'abbozzo di un romanzo, appena un paio di pagine, pervenuto in un
"foglietto" databile al 1910-12. La prima rappresentazione romana (9 maggio
1921), ad opera della Compagnia di Dario Niccodemi, ebbe un esito tempestoso. La
prima edizione di Sei personaggi in cerca d'autore. Commedia da fare, figura in
Maschere nude. Teatro di Luigi Pirandello; fondamentale la quarta edizione del
1925, «riveduta e corretta con l'aggiunta di una prefazione».
Nella «Prefazione» del 1925 l'autore spiega così la genesi della commedia:
«Posso soltanto dire che, senza sapere d'averli punto cercati, mi trovai
davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei
sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, lì presenti,
ciascuno col suo tormento segreto e tutti uniti dalla nascita e dal viluppo
delle vicende reciproche, ch'io li facessi entrare nel mondo dell'arte,
componendo delle loro persone, delle loro passioni e dei loro casi un romanzo,
un dramma o almeno una novella. Nati vivi, volevano vivere. E allora, ecco,
lasciamoli andare dove son soliti d'andare i personaggi drammatici per aver
vita: su un palcoscenico».
Il palcoscenico, che gli spettatori trovano entrando in teatro, si mostra con il
sipario alzato, «senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto». Due scalette ai
lati lo mettono in comunicazione con la sala. È in programma la prova mattutina
del Giuoco delle parti di Pirandello. Arrivano il Direttore-Capocomico e, alla
spicciolata, gli Attori; ultima, attesa e bizzosa, la Prima Attrice. Inizia la
prova. L'usciere del teatro viene intanto ad annunciare al Direttore l'arrivo
dei Sei Personaggi che dal fondo della sala, percorrendo il corridoio fra le
poltrone, raggiungono il palcoscenico. Sono: il Padre sulla cinquantina; la
Madre «velata da un fitto crespo vedovile»; la Figliastra diciottenne,
«spavalda, quasi impudente»; uno «squallido Giovinetto di quattordici anni»; una
«Bambina di circa quattro anni»; e «il Figlio, di ventidue anni, alto, quasi
irrigidito in un contenuto sdegno per il Padre e in un'accigliata indifferenza
per la Madre». Il Padre, che si fa portavoce del gruppo, dice, fra l'incredulità
generale, che, gravati da «un dramma doloroso», essi sono personaggi in cerca
d'autore. «Nel senso, veda», precisa al Capocomico, «che l'autore che ci creò,
vivi, non volle poi, o non poté materialmente, metterci al mondo dell'arte. E fu
un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo,
può ridersi anche della morte. Non muore più!».
Rifiutati dall'autore, i personaggi propongono al Capocomico una «commedia da
fare» , con un testo da concertare insieme sul dramma che urge dentro di loro.
Così il Padre e la Figliastra cominciano a rivivere, sopraffacendosi
reciprocamente, i passaggi dolorosi della vicenda che ha segnato le loro vite
negate al mondo dell'arte.
Dalle nozze fra il Padre e la Madre era nato il Figlio presto affidato a una
balia di campagna. Il Padre, «uomo tormentato e tormentatore» aveva intanto
notato una silenziosa intesa tra la moglie e il suo segretario e, preso dal
«Dèmone dell'Esperimento» (annota con ironia il Figlio), aveva incoraggiato la
loro unione. Dal nuovo legame erano nati la Figliastra, e poi il Giovinetto e la
Bambina. Il Padre si era interessato «con una incredibile tenerezza della nuova
famigliuola», finché non si era trasferita in un altro paese; in particolare
aveva seguito la crescita della Figliastra, attendendola spesso all'uscita della
scuola. Morto il compagno, la Madre era ritornata al paese d'origine con i tre
figli e, per provvedere al loro sostentamento, si era adattata a fare lavori di
cucito per Madama Pace, una «sarta fina», il cui atelier copriva in realtà
l'esercizio di una casa d'appuntamenti. La consegna dei lavori era affidata alla
Figliastra, che per la sua giovane età era stata adocchiata da Madama Pace, la
quale, trovando sempre da lamentarsi della qualità del lavoro, riduceva il
pagamento in modo da costringere la ragazza a integrarlo concedendosi ai
clienti. Un giorno, «condotto dalla miseria della sua carne ancora viva», il
Padre capita nell'atelier di Madama Pace; ma, proprio quando sta per compiersi
l'«incesto» con la Figliastra, nella camera irrompe con un grido la Madre. Dopo
quel momento la famiglia si ricompone nella casa del Padre in un'atmosfera di
tensioni incrociate e laceranti, con il Figlio legittimo che considera gli altri
degli intrusi, compresa la Madre che non ha mai conosciuto. Presi dalle
reciproche recriminazioni, gli adulti finiscono per trascurare il Giovanetto e
la Bambina.
La vicenda dei Sei Personaggi suscita vivo interesse nel Capocomico, che accetta
la proposta del Padre di stendere una traccia per la prova degli Attori a cui
vengono subito assegnate le parti. I Personaggi però non si riconoscono negli
Attori che dovranno interpretarli. Un problema viene intanto sollevato dal
Capocomico: l'assenza di Madama Pace, personaggio determinante per la scena
dell'atelier. Il Padre offre la soluzione: si appendano agli attaccapanni di
scena i cappellini e i mantelli delle attrici affinché, «attratta dagli oggetti
stessi del suo commercio», la maitresse compaia. Infatti, come evocata, appare
Madama Pace «megera d'enorme grassezza, con una pomposa parrucca di lana color
carota e una rosa fiammante da un lato, alla spagnola». A questa apparizione gli
Attori e il Capocomico schizzano via dal palcoscenico per la scaletta laterale
«con un urlo di spavento». Ed ecco che, per prodigio d'arte, la Figliastra
riconosce Madama Pace, le si accosta e con lei inizia sottovoce la scena in cui
la maitresse le annuncia, in una buffa parlata mezzo spagnola e mezzo italiana,
che un «vièchio senor» vuole «amusarse» con lei. Seguono l'entrata del Padre
nella camera e il dialogo con la Figliastra, intonato a melliflua galanteria da
una parte e nausea sdegnosa dall'altra. Il Capocomico, convinto dell'effetto,
vuole subito far provare la scena agli Attori, ma la loro interpretazione,
artificiosa e banale, provoca una fragorosa risata della Figliastra che non vi
si riconosce, sicché il Capocomico consente che siano intanto i Personaggi a
interpretare se stessi. La scena tra la Figliastra e il Padre riprende fino
all'arrivo della Madre e alla violenta interruzione prodotta dal suo grido
straziato. «Effetto sicuro!», garantisce il Capocomico entusiasta. Per provare
la scena finale, viene allestito sommariamente l'ambiente di un giardino con una
piccola vasca e due cipressetti contro un fondalino bianco. Nel giardino il
Capocomico vorrebbe inserire una scena d'effetto fra la Madre e il Figlio, ma
questi rifiuta con sdegno perché nella realtà non c'è stata alcuna scena tra
loro. E' vero però che la Madre, entrata nella sua camera, aveva cercato, come
sempre, ma inutilmente, un dialogo con lui, che per sfuggirle era uscito in
giardino. E qui, con orrore, aveva visto nella vasca la bambina annegata, e
mentre si precipitava per ripescarla, aveva scorto dietro gli alberi «il ragazzo
che se ne stava lì fermo, con occhi da pazzo, a guardare nella vasca la
sorellina affogata». A questo punto sul palcoscenico, come allora nella realtà,
dietro lo «spezzato d'alberi» dove il Giovinetto stava nascosto stringendo
qualcosa nella tasca, rintrona un colpo di rivoltella a cui segue il grido
straziante della Madre. Nello sconcerto degli Attori, che non sanno se il
ragazzo sia morto veramente, se sia finzione o realtà, il Padre grida: «Ma che
finzione! Realtà, realtà, signori! realtà!». A questo punto il Capocomico,
indispettito per la giornata perduta, licenzia tutti e ordina a un elettricista
di spegnere le luci, ma dietro il fondalino, come per errore, si accende un
riflettore verde, che proietta le ombre dei Personaggi, meno quelle del
Giovinetto e della Bambina. Vedendole, il Capocomico fugge dal palcoscenico,
atterrito. Spento il riflettore, il Figlio, la Madre e il Padre escono dal
fondalino e si fermano in mezzo alla scena «come forme trasognate». Esce per
ultima la Figliastra, la quale, ripetendo la sua scelta di perdizione, corre
verso una delle scalette, si arresta un momento a guardare gli altri e con una
stridula risata scompare dalla sala.
Nella «Prefazione» apposta all'edizione del 1925 Pirandello fornisce
un'interpretazione d'autore della commedia, chiarendone la genesi, gli intenti,
le fondamentali tematiche, la natura dei personaggi e i rapporti che
intercorrono fra loro. Così scrive: «Io ho voluto rappresentare sei personaggi
che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi appunto perché
manca l'autore che essi cercano; e si rappresenta invece la commedia di questo
loro vano tentativo, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che
questi sei personaggi sono stati rifiutati». Pirandello, che aveva rifiutato il
vissuto dei personaggi da lui concepiti, cioè la loro ragion d'essere
drammatica, ne ha loro attribuita un'altra che essi non sospettano neppure,
quella appunto di «essere in cerca d'autore». Personaggi rifiutati, ma non
abbandonati dall'autore che ha sofferto con loro «l'inganno della comprensione
reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la
molteplice personalità d'ognuno secondo tutte le possibilità d'essere che si
trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita
che di continuo si muove e cambia e la l'orma che la fissa, immutabile». Li ha
seguiti quei personaggi, «a loro insaputa», nel vano tentativo di
rappresentarsi, intervenendo nel nodo cruciale dell'improvvisa apparizione di
Madama Pace che poteva nascere «a quel modo soltanto nella fantasia del poeta,
non certo sulle tavole d'un palcoscenico». Infatti l'Autore ha cambiato
inavvertitamente la scena sotto gli occhi degli spettatori, mostrando su quello
stesso palcoscenico la sua fantasia «in atto di creare». L'importanza dell'atto
creativo di questo testo, il più originale e carico di futuro, non solo del
teatro di Pirandello ma di tutto il teatro del Novecento, è stata peraltro
riconosciuta dal pubblico e dalla critica, da Tilgher a Artaud e a Silvio
d'Amico, da Macchia a Leone de Castris e a Borsellino.
Dopo la tumultuosa prima al Teatro Valle di Roma, con Luigi Almirante nel ruolo
del Padre e Vera Vergani in quello della Figliastra (in cui gli spettatori
contrari inveirono gridando «Manicomio! Manicomio!»), la commedia fu ripresa a
Milano, al Teatro Manzoni, il 27 settembre 1921. L'anno seguente, fu allestita a
Londra al Kingsway Theatre (a cura della Stage Society) e a New York al Princess
Theatre (a cura di Brock Pemberton); nel 1923 fu rappresentata a Parigi, alla
Comédie des Champs-Elysées, da Georges Pitóeff, nella traduzione di Benjamin
Crémieux; nel 1924 a Berlino, al Komódie Theater, da Max Reinhardt.
L'allestimento parigino di Pitóeff, alla cui prova generale era presente
l'autore, doveva risultare illuminante per la riscrittura dei Sei personaggi che
Pirandello propose nella messinscena del suo Teatro d'Arte all'Odescalchi di
Roma, il 18 maggio 1925, con Lamberto Picasso (il Padre), Marta Abba (la
Figliastra) e Gino Cervi (il Figlio). Alla stagione 1963-64 risale la produzione
della Compagnia dei Giovani diretta da Giorgio De Lullo, con Romolo Valli (il
Padre) e Rossella Falk (la Figliastra). Dalla commedia Pirandello ricavò, con
Adolf Lantz uno scenario cinematografico mai realizzato. Denis Johnston ne
trasse un libretto per l'opera in tre atti musicata da Hugo Weisgall,
rappresentata a New York, City Center, il 26 aprile 1959.
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