La commedia fu scritta in dialetto siciliano nell'agosto del 1916 durante la
prima guerra mondiale, in un passaggio doloroso della vita dell'autore
angosciato dalla prigionia in un campo di concentramento del figlio Stefano e
dalle sempre più frequenti crisi della malattia mentale della moglie Antonietta.
In una lettera al figlio prigioniero Pirandello si compiaceva del suo lavoro:
«L'ho scritta in 15 giorni, quest'estate, è stata la mia villeggiatura. È così
gioconda, che non pare opera mia». La commedia fu messa in scena il 4 novembre
1916 dalla Compagnia comica siciliana di Angelo Musco, che interpretò la parte
del protagonista; nelle quattro repliche il pubblico e la critica stentarono a
comprendere la parlata girgentina dei dialoghi. L'autore si rese conto delle
«difficoltà del dialetto siciliano strettissimo perché campagnolo» e provvide a
una traduzione italiana inserita nel volume Liolà. Commedia campestre in tre
atti: Testo siciliano e traduzione italiana a fronte, del 1928 è una nuova
edizione in lingua pubblicata a Firenze.
La vicenda di Liolà, ispirata a un episodio del capitolo IV del Fu Mattia
Pascal, ha per protagonista il contadino poeta Neli Schillaci detto Liolà nome e
soprannome già attribuiti, nella novella La mosca, a un altro giovane contadino
poeta, Neli Tortorici. La vocazione alla poesia e al canto di Liolà si manifesta
nelle sue canzoni che postillano il corso della vicenda e definiscono un
personaggio spensierato e vagabondo, in sintonia con le voci della natura. Le
canzoni evidenziano così l'insita musicalità di un testo che si propone come un
inedito e felice musical campestre.
L'azione si apre nella «campagna agrigentina» in settembre, mentre le contadine
sono intente a schiacciare le mandorle nel podere della zia, Croce Azzara,
sorvegliate dal cugino, lo zio Simone Palumbo, «ricco massaro» sessantenne. Zio
Simone sposato in seconde nozze con la giovane Mita, è in pena perché dopo
quattro anni di matrimonio non ha ancora un figlio a cui lasciare la «roba». Sul
vecchio, ossessionato dal cruccio della mancata paternità, convergono le trame
dei giovani, Tuzza, Liolà e Mita, in un incrocio di ripicche e vendette. Tuzza è
la figlia di zia Croce e nipote di zio Simone; Liolà è un giovane bracciante,
canterino e seduttore, «cento ne vede e cento ne vuole», che ha reso madri tre
ragazze della contrada e allegramente si è tenuto i bambini, affidandoli a sua
madre, la zia Ninfa; Mita è una povera orfana che zio Simone ha sposato per
avere il sospirato erede e che ora disprezza per la sua presunta sterilità.
Tuzza per far dispetto a Mita, che prima di sposarsi trescava con Liolà, si è
lasciata sedurre da lui e ne è rimasta incinta. Liolà, «solo per coscienza» ne
chiede la mano, ma viene respinto perché Tuzza non si fida di un marito che
sarebbe «di tutte» e progetta piuttosto, con la complicità della madre, di farsi
riconoscere il figlio dallo zio, vecchio ma ricco, facendo leva sulle sue
velleità mascoline.
Nel secondo atto lo zio Simone, che si è lasciato raggirare, con stolida
fierezza grida in faccia alla moglie che il figlio di Tuzza è suo e ora «deve
lasciarle tutto, ché gli ha dato la prova che non mancava per lui». Mita, per
sottrarsi alle furie del marito, si rifugia dalla zia Gesa, vicina di casa di
Liolà. Il giovane contadino e Mita sono ora accomunati da motivi di rancore nei
confronti di Tuzza, l'uno perché è stata sdegnata la sua offerta di nozze
riparatrici, l'altra per l'intrigo del figlio attribuito a don Simone, che le
porterà via il marito e la «roba». In un dialogo con la ragazza Liolà le offre
le sue risorse di amante prolifico per dare al vecchio marito quel figlio tanto
sospirato, così «come sta per averlo da Tuzza». Mita rifiuta, ma la sera gli
apre la porta di casa.
Nel terzo atto (un mese dopo, al tempo della vendemmia) zio Simone può
finalmente annunciare che la moglie gli ha dato la «consolazione» di un figlio
legittimo. Il vecchio, gratificato, vorrebbe ora indurre Liolà a prendersi in
moglie Tuzza, ma Liolà rifiuta perché sposandola gli «sarebbero morte nel cuore»
tutte le canzoni per coscienza può solo prendersi il figlio, affidandolo, come
gli altri tre, a sua madre. Tuzza, scornata e furibonda, gli si scaglia addosso
con un coltello. Liolà, che ha riportato solo un graffio di striscio, la consola
cantandole a dispetto: «Non pianger, Tuzza, non t'addolorare! Tre, e uno quattro
- e gl'insegno a cantare!».
Alla commedia mancò il successo, perché nel finale, notò sull'«Avanti!» Antonio
Gramsci, «per il pubblico ci voleva il sangue o il matrimonio»; tuttavia
aggiunse: «è il prodotto migliore dell'energia letteraria di Luigi Pirandello, è
una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, Mattia
Pascal, il melanconico essere moderno, vi diventa Liolà, l'uomo della vita
pagana, pieno di robustezza morale e fisica». Per Gaspare Giudice, sotto il
profilo letterario, il personaggio di Liolà è «un precipitato poetico» a cui non
«si devono chiedere testimonianze né certificati naturalistici». Il personaggio
- dopo l'interpretazione di Angelo Musco, che lo riprese ancora nel 1935,
quand'era ultrasessantenne - è stato interpretato da vari attori: nel 1935 da
Peppino De Filippo; nel 1939 da Michele Abruzzo, erede siciliano di Musco; nel
1942 da Vittorio De Sica; nella stagione 1956-57 da Giorgio De Lullo; nel 1959 e
nel 1968 da Turi Ferro; ancora nel 1968 da Domenico Modugno. Dalla commedia
Antonio Rossato ricavò un libretto per l'opera musicata da Giuseppe Mulè
rappresentata al Teatro San Carlo di Napoli il 1œ febbraio 1935. Una Libera
riduzione cinematografica fu diretta nel 1963 da Alessandro Blasetti;
sceneggiatura di Elio Bartolini Blasetti e altri; interpreti Ugo Tognazzi
(Liolà), Giovanna Ralli, Anouk Aimée, Pierre Brasseur, Elisa Cegani, Dolores
Palumbo.
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