Al «mito» dei Giganti della montagna, rimasto incompiuto, Pirandello aveva
cominciato a pensare fin dall'estate 1928, rilasciando anticipazioni alla stampa
sulla nuova opera; ma solo tra il 1931 e il 1932 ne pubblicò un atto con il
titolo I Fantasmi su due riviste, «La Nuova Antologia», e «Il Dramma». Un
secondo atto, con il titolo definitivo I giganti della montagna, apparve in
«Quadrante». Dell'ultimo atto rimane un abbozzo di «sedici righe tracciate su un
mezzo foglio di carta formato commerciale». La ricostruzione che di quest'ultimo
atto incompiuto ne ha fatta il figlio Stefano, sulla base delle confessioni
paterne, figura nella prima edizione del «mito» nel vol. X delle Maschere nude.
I giganti della montagna vennero rappresentati postumi il 5 giugno 1937, in
occasione del Maggio Fiorentino, con la regia di Renato Simoni e
l'interpretazione di Memo Benassi, Andreina Pagnani, Carlo Ninchi e Salvo
Randone.
L'azione di questo «mito» dell'Arte si svolge in un «Tempo e luogo
indeterminati: al limite fra la favola e la realtà». Il Mago Cotrone, «un omone
barbuto, dalla bella faccia aperta, con occhioni ridenti splendenti sereni», con
in capo «un vecchio fez da turco», dimissionario dal mondo, «per il fallimento
della poesia della cristianità», si è assegnata una singolare missione
filantropica, quella di fornire l'alimento dei sogni a sei «scalognati», ospiti
della misteriosa villa detta «La Scalogna», posta «agli orli della vita», in
un'isola abbacinata dal sole. Il personaggio di Cotrone è la replica mitica e
sublimata di quello di Bombolo (anche lui con un «berretto rosso da turco» in
testa), l'«apostolo» della giustizia della novella La lega disciolta, difensore
degli sfruttati dall'avidità padronale. Come il Mago, così alcuni «scalognati»
sono riproposte di personaggi di precedenti testi pirandelliani. Il Nano Quaquèo
deriva dal lampionaio sciancato della novella Certi obblighi; il nome della
Sgricia proviene da quello della vecchia serva di un prete della novella In
corpore vili, ma a lei è attribuita una vicenda che riguarda il personaggio di
un'altra novella, Lo storno e l'Angelo Centuno; Maddalena ha i tratti degradati
di una figura della memoria girgentina dell'autore, già delineata in un
«appunto» pirandelliano. Gli altri sono Duccio Doccia, Milordino e Mara Mara.
Cotrone offre ai suoi ospiti «una continua sborniatura celeste», inventa per
loro la verità: «Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. Le faccio venire
fuori dal segreto dei sensi». Alla villa «La Scalogna» arrivano, pellegrini
d'arte allo sbando i resti della compagnia della Contessa: Ilse, detta ancora La
Contessa; Il Conte, suo marito; Diamante, la seconda Donna; Cromo, il
Caratterista; Spizzi, l'Attor Giovane; Sacerdote e Lumachi. Gli «scalognati»
cercano di tenere lontano gli intrusi con sinistri effetti di luci e di suoni,
«larghi fiati di luce, come lampi d'estate, accompagnati da scrosci di catene»,
e con apparizioni spettrali; ma Cotrone li incoraggia ad accogliere con
generosità i comici sbandati. Ilse, la Contessa, giunge esausta, «coi capelli
sparsi, color di rame caldo», distesa sul carretto di fieno trascinato
dall'attore Lumachi. Di questa compagnia di teatranti, ora «affamati, randagi»
il Conte s'era fatto impresario, sperperando il patrimonio per compiacere la
moglie Ilse, Prima Attrice della compagnia. Ilse è dominata da un'idea rovinosa:
portare sulle scene La favola del figlio cambiato (dramma in versi di Pirandello
musicato da Gian Francesco Malipiero nel 1934) che un poeta, morto suicida, ha
scritto per lei. La favola non ha incontrato il favore del pubblico e la
compagnia s'è ridotta allo stremo, ma Ilse, sempre più invasata, non ha
rinunciato al suo progetto. Nelle vicinanze della villa non c'è però alcun paese
che disponga di un teatro e per la notte gli attori accettano l'ospitalità di
Cotrone.
Nel secondo «momento» a Ilse, rimasta nello spiazzo antistante la casa, il Mago
mostra i prodigi del luogo; a un suo grido «la facciata della villa s'illumina
d'una fantastica luce d'aurora», a un altro gesto appare il «languide sprazzo
verde» delle lucciole. Cotrone spiega; così i fenomeni: «A noi basta immaginare
e, subito le immagini si fanno vive da sé»; e proponi di rappresentare fra gli
«scalognati» La favola del figlio cambiato, «come un prodigio che s'appaghi di
sé». Ma la Contessa rifiuta perché l'opera del poeta, morto per lei, dovrà
vivere in mezzo agli uomini.
Nel terzo «momento» la villa riserva altre magiche sorprese. In un vasto
stanzone, detto «arsenale delle apparizioni» , la parete di fondo a tratti si fa
trasparente visualizzando i sogni e i pensieri degli ospiti, mentre dei
fantocci, abbandonati goffamente in un angolo, all'improvviso si animano dando
corpo a quei sogni e a quei pensieri. Il Mago rassicura Ilse: «Stia tranquilla,
Contessa. È la villa. Si mette tutta così ogni notte da sé in musica e in sogno.
E i sogni, a nostra insaputa, vivono fuori di noi». Cotrone per aiutarla si
offre di far rappresentare la Favola nel paese dei Giganti che abitano sulla
vicina montagna in occasione di una grande festa di nozze. I Giganti sono «gente
d'alta e potente corporatura» dedita all'«esercizio continuo della forza» per la
realizzazione di immani imprese che «non han soltanto sviluppato enormemente i
loro muscoli, li hanno resi naturalmente anche duri di mente e un po' bestiali».
Non nascondendo la difficoltà del tentativo, Cotrone prova ancora a persuadere
Ilse a rappresentare la Favola tra loro: «È fatta proprio per vivere qua,
Contessa, in mezzo a noi che crediamo alla realtà dei fantasmi più che a quella
dei corpi». E gliene vuole fornire un saggio invitandola a recitare un brano. Ed
ecco che alle prime battute dell'Attrice, attratte ed evocate dalle parole del
testo, sulla scena che «s'illumina come per un tocco magico», compaiono due
figure femminili del dramma che prendono a dialogare con lise, come uscite dalla
fantasia del poeta. Il prodigio d'arte non basta a convincere la Contessa, e il
Mago si dispone ad accompagnarla insieme con gli attori dai Giganti. A questo
punto risuona potente, «fra grida quasi selvagge», il frastuono della cavalcata
dei Giganti che scendono nel paese per la celebrazione delle nozze. I muri della
villa tremano, gli Attori sono atterriti. Si conclude qui il testo compiuto da
Pirandello.
Gli avvenimenti del quarto «momento» si ricavano dalla testimonianza del figlio
Stefano, secondo il quale la rappresentazione della Favola avveniva davanti ai
rozzi servi dei Giganti che, inferociti da uno spettacolo tanto lontano dalle
loro possibilità di comprensione e di gradimento, si ribellavano aggredendo gli
Attori e la Prima Attrice, il cui corpo agonizzante veniva portato via dai
compagni, «spezzato come quello di un fantoccio rotto». Con questo sacrificio
doveva compiersi quella che Pirandello, in una lettera a Marta Abba, definiva
«la tragedia della Poesia in questo brutale mondo moderno».
Dopo la "prima" postuma, nel dopoguerra Giorgio Strehler ha curato tre storici
allestimenti dei Giganti della montagna con il Piccolo Teatro di Milano,
riprendendo la ricostruzione del finale, non scritto da Pirandello, dalla
testimonianza del figlio Stefano. La messinscena del 1947 si avvaleva
dell'interpretazione di Lilla Brignone e di Camillo Pilotto, le musiche erano di
Fiorenzo Carpi; nel 1966 i ruoli principali erano affidati a Valentina Cortese e
a Turi Ferro, le scene e i costumi a Enzo Frigerio; nel 1994 i protagonisti
erano Andrea Jonasson e Giancarlo Dettori. In occasione di quest'ultima ripresa
Giorgio Strehler aveva annotato: «C'è un tema profondo, ricorrente, nella grande
cultura greca-europea: quello dei mitici Giganti che vogliono impadronirsi del
potere celeste, universale. Ma vengono sconfitti, proprio quando sembrano aver
vinto. Questa radicata, inquietante presenza tocca l'ultimo Pirandello che in
quest'opera incompiuta, la rappresenta nel teatro e nella poesia e la innesta
dentro il tema più generale della Rappresentazione».
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