Pirandello scrisse L'umorismo (in cui confluirono non poche pagine dei suoi
scritti precedenti) per presentarlo come titolo al concorso a ordinario presso
l'Istituto superiore di Magistero femminile. Del saggio uscirono tre
anticipazioni: Umorismo o Ironismo?, in «Il Ventesimo» di Genova, Dell'Umorismo,
Questioni preliminari, nella «Rivista di Sociologia ed Arte, Scienze Sociali ed
Estetica» di Palermo, L'ironia comica nella poesia cavalleresca, nella «Nuova
Antologia».
La prima edizione riportava la dedica «Alla buon'anima / di / Mattia Pascal /
bibliotecario», che evidenziava l'identità d'ispirazione con quel romanzo: sia
per la quasi contemporaneità (il nucleo più compatto e l'immediato antecedente
dell'Umorismo è il saggio Alberto Cantoni; del 1905), sia per la continuità tra
scrittura saggistica e narrazione romanzesca. La «seconda edizione aumentata»
del 1920, presentava numerose aggiunte e correzioni, la maggior parte delle
quali costituiva, esplicitamente o meno, una risposta alla stroncatura di
Benedetto Croce (su «La Critica»).
L'umorismo è composto da una prima parte erudita e storico-filologica, più
legata all'occasione concorsuale, e da una seconda, più importante, di natura
«psicologica ed estetica» (come Pirandello scriveva a Ugo Ojetti), con inserti
in un registro "narrativo" che, via via, si dilata sempre più. Ciascuna delle
due parti è divisa in sei capitoli, numerati e titolati nella prima, soltanto
numerati nella seconda, che ha il titolo generale «Essenza, caratteri e materia
dell'umorismo».
Il saggio si apre con la discussione del significato del termine «umorismo».
Pirandello ne respinge l'accezione comune (qualcosa che fa ridere) e lo
contrappone all'ironia retorica: la contraddizione solo verbale e apparente in
questa è, invece, essenziale in quello. Nel secondo e nel terzo capitolo
Pirandello smentisce che l'umorismo sia un fenomeno letterario moderno e, per lo
più, anglosassone, estraneo alla tradizione dei popoli latini. Al di là degli
obiettivi polemici espliciti, tra cui la pretesa positivistica di collegare
l'umorismo alla race, al milieu e al moment, la polemica investe alcune tesi
fondamentali dell'Estetica di Hegel e un articolo sull'umorismo scritto da Croce
nel 1903.
La confutazione dell'articolo proseguiva in un passo, poi soppresso, del quarto
capitolo, in cui Pirandello contestava a Croce che la conoscenza intuitiva, da
lui posta a fondamento del fatto estetico, si limitasse al contenuto psichico
senza tradursi in forma. Il problema della forme e dello stile sono infatti al
centro del quarto capitolo, che polemizza con la precettistica retorica, con la
forma intesa come esteriorità. L'umorismo, al contrario, «ha sopra tutto bisogno
d'intimità di stile».
Nel quinto capitolo l'autore mette in campo la sua formazione da filologo
romanzo per negare che la poesia cavalleresca sia sorta come parodia dell'epica
medievale, confutando cioè - al di là degli obiettivi dichiarati - una tesi
dell'Estetica hegeliana ripresa da Francesco De Sanctis nelle sue lezioni
zurighesi. Il capitolo culmina nelle pagine dedicate a Don Chisciotte (emblema,
nelle lettere giovanili di Pirandello, del poeta nella società moderna), che se
per Hegel e De Sanctis era una caricatura frutto di un'ironia puramente
negativa, per Pirandello, invece, «ha del tragico nella sua comicità». Giunto in
queste pagine al problema centrale della sua concezione (la compresenza di
opposti sentimenti e modi di vedere), Pirandello si affretta verso la seconda
parte «psicologica ed estetica», nel cui secondo capitolo egli riprende, non a
caso, l'esame del personaggio di Cervantes.
L'umorismo è la parziale inibizione del riso di pura superiorità nei confronti
della vittima del ridicolo, con cui ci si immedesima: è un riso non più
«schietto e facile» ma amaro, ambivalente, turbato e complicato da un sentimento
opposto. All'origine di questo passaggio dall'avvertimento comico all'umoristico
«sentimento del contrario», Pirandello colloca «la riflessione (che) non si
nasconde» e che, «da giudice» del sentimento, «lo analizza, spassionandosene; ne
scompone l'immagine». Tale riflessione non va identificata con lo spirito
critico di una riflessione meramente intellettuale. Non è del tutto chiaro cosa
Pirandello intendesse per «riflessione» (come rilevava Croce), ma il senso
complessivo del suo discorso è espresso dall'immagine utilizzata in proposito -
nel terzo capitolo della seconda parte - del «critico fantastico», sinonimo di
umorista, e dall'affermazione che quella «speciale attività della riflessione» è
«una specie di proiezione della stessa attività fantastica: nasce dal fantasma,
come l'ombra dal corpo».
Nel capitolo successivo è esaminata la «speciale fisionomia psichica»
dell'umoristico uomo «fuori di chiave», «a un tempo violino e contrabbasso»:
«sospeso, perplesso, per tutta la vita» tra il si e il no, egli è, con tutta
evidenza, il moderno Amleto, indicato nel Fu Mattia Pascal (capitolo XII) quale
emblema della tragedia moderna, a fronte di quella antica i cui eroi recitano la
commedia come marionette, «senza soffrir mai vertigini o capogiri».
Nel penultimo capitolo, esaminando la fondamentale tematica della
«scomposizione» umoristica delle convenzioni sociali, delle simulazioni
coscienti, ma altresì delle finzioni psicologiche inconsce, Pirandello esplicita
quali siano le «vertigini» di cui soffre l'uomo umoristico. Nei «momenti di
piena» si manifesta « l'anima istintiva, che è come la bestia originaria
acquattata in fondo a ciascuno di noi»; mentre nei «momenti di silenzio
interiore» - centro emotivo-fantastico-intellettuale del sistema letterario
pirandelliano, descritti in una straordinaria pagina - si ha l'epifania
dell'inconscio in quanto realtà «oltre i limiti», «fuori delle forme dell'umana
ragione». Chi affronta la vertiginosa esperienza di sporgersi sugli «abissi del
mistero», a rischio di sprofondarvi, «di morire o d'impazzire», capisce il
giuoco e non può più credere né dare importanza alla «fantasmagoria meccanica»
della vita quotidiana.
Alla base dello scettico relativismo pirandelliano c'è quindi un'esperienza
dell'oltre che è esperienza del nulla (per il pensiero cosciente), ma anche,
contemporaneamente e in inconciliabile contraddizione, del Tutto (per il sentire
inconscio), come dimostra un'altra straordinaria pagina (ripresa dal capitolo
XII del Fu Mattia Pascal) in cui il sentimento della vita è la favilla prometea,
spenta la quale Pirandello si chiede se «non rimarremo noi piuttosto alla mercé
dell'Essere».
Per tale situazione esistenziale di contemporanea piccolezza e grandezza
dell'uomo, di sospensione tra il nulla del suo pensare e il Tutto del suo
sentire, Pirandello richiama esplicitamente Il Copernico, una delle Operette
morali di Giacomo Leopardi. Tale motivo copernicano (presente anche nel Fu
Mattia Pascal) è la punta di un iceberg di fonti e richiami impliciti che si
gioca in larga parte tra Leopardi e la lettura che ne dette De Sanctis.
L'umorismo rappresenta la chiave di accesso di tutto il sistema letterario
pírandelliano. La prima parte, pur maggiormente legata all'occasione accademica,
è fondamentale per il suo tentativo di saldare la poetica pirandelliana,
espressa nella seconda parte, anzitutto a un'interpretazione storico-letteraria
e critica, e poi a un'estetica che è frutto di un'epistemologia connessa a un
nuovo modello antropologico (basato sulle antinomie, sulla compresenza degli
opposti). Sviluppando il primo collegamento, Pirandello individuava una linea
misconosciuta della tradizione letteraria, poi studiata da Michail Bachtin.
Svolgendo il secondo, egli percorreva un cammino parallelo a quello di Henri
Bergson e Sigmund Freud (che, a inizio secolo, avevano anch'essi dedicato studi,
con forti valenze estetiche ed epistemologiche, al riso e al comico) e
anticipava la bi-logica dell'epistemologia a sfondo psicoanalitico di Ignacio
Matte Blanco.
|