La composizione del Fu Mattia Pascal, stando alle lettere di Pirandello ad
Adolfo Orvieto, era già iniziata alla fine del 1902 e conclusa nel novembre del
1903, l'anno in cui, a seguito della rovina economica (e dei conseguenti primi
segni della malattia mentale della moglie), Pirandello pensò seriamente al
suicidio. Il «romanzo umoristico, una diavoleria» (così lo definiva Pirandello
allo scrittore Luigi Antonio Villari) fu pubblicato, a puntate, sulla «Nuova
Antologia». Pirandello, scrivendone nuovamente al Villari, in vista dell'uscita
del volume, fantasticava sulla possibilità di «questo frontespizio: / IL FU
MATTIA PASCAL / ROMANZO / DEL / FU LUIGI PIRANDELLO» e gli annunciava l'aggiunta
di una dedica: «Alla memoria cara di Alberto Cantoni, / maestro d'umorismo
questo libro / ch'egli aspettava e non poté leggere».
Il ritratto fotografico, opera di Luigi Capuana, di un giovane Pirandello
pensoso e malinconico, manifesta la volontà dell'autore - che ne chiese
l'affiancamento al frontespizio - di suggerire al lettore, fin da una delle
"soglie" del testo, la propria identificazione con la voce narrante del
protagonista. Il romanzo è carico «di una tensione autobiografica molto più
acuta che in altre opere», ha scritto Nino Borsellino: e questo è testimoniato
anche dal manoscritto autografo studiato dallo stesso Borsellino.
La vicenda narrata nel romanzo - suddiviso in diciotto capitoli titolati,
inclusi due a mo' di premessa - ha inizio a Miragno, immaginario paese ligure.
Il protagonista Mattia Pascal e suo fratello Berto, dopo essere cresciuti sotto
le cure di un bizzarro precettore soprannominato Pinzone (maestro d'umorismo,
per quanto soffocato di erudizione retorica, che talora fa «il matto»),
conducono una vita da gaudenti «scioperati» con cui completano l'opera
dell'avido e disonesto Batta Malagna, l'amministratore che, dopo la morte del
loro padre, ha prosciugato a poco a poco il patrimonio di famiglia. Berto si
sottrae alla miseria con il matrimonio; Mattia, invece, con il matrimonio -
determinato da una rete d'interessi, mire e inganni, talora farseschi, intorno
alla "roba" di Malagna - la aggrava e complica ulteriormente la sua esistenza.
Di fronte alla conclusione farsesca di un'ennesima lite in famiglia, Mattia
sperimenta il rimedio di «ridere di tutte le sue sciagure e d'ogni suo
tormento», piangendo lacrime di riso, miste al sangue dei graffi ricevuti,
mentre un occhio «s'era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto
suo»: maschera grottesca che, nel misto di lacrime e riso nonché nella visione
strabica, simboleggia l'umorismo pirandelliano. Lavorando in una biblioteca
invasa dalla polvere e frequentata solo dai topi, con sede in una vecchia chiesa
sconsacrata, Mattia Pascal scopre poi il secondo rimedio - che è anche un
approfondimento del male della vita perché ne dà più piena e profonda coscienza
- della lettura di libri di filosofia che gli «sconcertarono peggio il cervello,
già di per sé balzano». Arriva così a compimento la sua antinomica, umoristica,
identità, inscritta nel nome: matto e filosofo al contempo (il cognome allude a
Blaise Pascal).
Quando una serie di lutti si aggiunge alla «noja» che lo ha «tarlato dentro»,
Mattia, come impazzito, fugge, non visto, dal paese per farsi una nuova vita in
America. La fortuna e il caso modificano però il suo destino: una clamorosa
vincita al gioco a Montecarlo, che gli assicura un cospicuo patrimonio, e la
notizia, sui giornali, del suo suicidio (la moglie e la suocera lo hanno
identificato con il cadavere di un uomo annegato) lo rendono miracolosamente
«libero, nuovo e assolutamente padrone di sé» e di un diverso, possibile,
futuro. Per sbarazzarsi del tutto della vecchia identità, egli modifica il suo
aspetto, assumendone uno, brutto e ridicolo, da filosofo, da cui fa discendere
l'intento di armarsi «d'una discreta filosofia sorridente», con la quale
contemplare «da fuori» la vita degli altri. Si dà poi il nome fittizio di
Adriano Meis, traendolo da una dotta discussione sulla bruttezza fisica di
Cristo, e si costruisce una storia, una memoria fittizia, con l'immaginazione e
l'esperienza di un anno di viaggi per l'Italia e l'Europa. «Forestiere della
vita», Adriano Meis, patendo il suo essere nessuno, si stabilisce infine a Roma,
in una stanza d'affitto in via Ripetta, in casa di Anselmo Paleari, impiegato in
pensione, che vive con la figlia Adriana e ospita il genero Terenzio Papiano,
vedovo di un'altra figlia, e la nubile quarantenne Silvia Caporale.
Il Paleari, ingenuo cultore di pratiche spiritiche nonché di studi teosofici e
filosofici, in alcuni passi di grande importanza per spiegare l'opera di
Pirandello, illustra la sua filosofia: eleva la sua protesta, d'impronta
leopardiana, contro l'illusione scientista del progresso e i limiti della
scienza (cap. x), come fa lo stesso Mattia (cap. IX); si sofferma sul problema
della morte e dell'Essere, del buio della crisi individuale e sociale, senza una
luce che illumini: siano i lanternoni delle ideologie collettive o le lucernette,
individuali, del pensiero e della letteratura (cap. XIII, pagine che torneranno
nel saggio su L'umorismo); fornisce, ancora, un'immagine emblematica
dell'umorismo pirandelliano: lo «strappo nel cielo di carta» di un teatrino di
marionette, da cui deriva l'incertezza che trasforma Oreste in Amleto e la
tragedia antica in moderna. Paleari infine, questo umoristico «Amleto in
ciabatte» (la definizione è di Nino Borsellino), svolge delle considerazioni
sulla morte di Roma che s'intrecciano con alcune riflessioni sul moderno, come
perdita del sacro, che costituiscono una dimensione fondamentale del romanzo,
esplicitata nella seconda premessa: il «destino di Roma» nella modernità è
anche, metaforicamente, quello della letteratura. Queste riflessioni sul destino
collettivo avranno un notevole peso anche sul destino individuale di Mattia
Pascal.
Tra Adriano e Adriana si sviluppa una reciproca simpatia e attrazione che, nel
buio di una seduta spiritica, si materializza in un bacio furtivo. L'identità
fittizia si rivela ora al protagonista una nuova prigione che lo costringe a una
vita di menzogne e, nel contempo, a essere nessuno, un'ombra inconsistente che
tutti possono calpestare, visto che egli non può concretizzare un legame stabile
con Adriana, né può denunciare alla polizia il furto subito da Papiano. Mattia
simula perciò il suicidio di Adriano Meis nel Tevere e torna a Miragno dove,
tuttavia, non può riassumere la propria vita precedente con la moglie Romilda
che, nel frattempo, si è risposata col suo amico Pomino, da cui ha avuto una
figlia. Distaccato dalla vita, «in pace», Mattia vive nella biblioteca
un'esistenza e un'identità del tutto particolari: «io non saprei proprio dire
ch'io mi sia», risponde a don Eligio; e a coloro che lo vedono visitare la
propria tomba: «Io sono il fu Mattia Pascal».
Il noto explicit del romanzo va letto, tuttavia, contestualmente alle due
premesse (ma conclusioni, nella fabula). Infatti, sulla sua tomba d'uomo, il fu
Mattia Pascal accende metaforicamente - seguendo un'indicazione di Paleari - la
sua lucernetta di scrittore: egli affida la propria identità postuma (il
manoscritto dovrà essere aperto dopo la sua morte) a una storia che,
paradossalmente, racconta di un'identità impossibile. La biblioteca cui è
affidato il manoscritto - fuor di metafora, la letteratura - è sì deserta e in
abbandono, sconsacrata come la chiesetta che la ospita, ma può sempre conservare
un'opera «da poter servire d'ammaestramento a qualche curioso lettore»; e dunque
essa mantiene una, qui sminuita e postuma, forma di sacralità, ancor più
evidente nelle due premesse che svolgono una funzione di "cornice" narrativa e
metaletteraria. Nella «Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa», il fu
Mattia Pascal dice di scrivere, «oltre che per la stranezza del suo caso» (una
delle atipicità registrate dalla letteratura naturalistica), «in grazia di» una
«distrazione provvidenziale» che consente all'uomo di vivere, nonostante gli
sforzi «di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin
di bene». Mattia Pascal affida alla scrittura la propria identità, illudendosi
per un attimo e dimenticando la moderna sconsacrazione della letteratura, in
grazia di una «distrazione» che costituisce un preciso riscontro testuale
leopardiano inserito in un contesto interamente e chiaramente leopardiano, in
cui appare decisivo il motivo copernicano che prefigura la teorizzazione poetica
del saggio su L'umorismo. Infatti nel saggio (cap. 5 della seconda parte),
Pirandello, richiamando esplicitamente Il Copernico di Leopardi, considererà
umoristica la compresenza di due sentimenti opposti: quello della piccolezza
dell'uomo che, dopo la rivoluzione copernicana, si scopre parte infinitesimale
dell'universo; e quello opposto, ma paradossalmente inscindibile, della
grandezza dell'uomo, basato però non più sulla sciocca superbia razionalistica
ma sulla percezione di una compenetrazione all'infinito. Se la fonte prossima di
questo atteggiamento umoristico era Leopardi, quella più lontana era Blaise
Pascal.
Con Il fu Mattia Pascal nasce il romanzo del Novecento. Le «storie di vermucci»
che Mattia Pascal rifiuta di scrivere sono quelle, nei canoni ottocenteschi del
realismo (e poi del naturalismo), di una narrazione fatta «per raccontare e non
per provare», cui egli preferisce un romanzo filosofico, saggistico, il moderno
romanzo umoristico. Da questo punto di vista è veramente emblematica la vicenda
dell'incontro - proprio nella tipografia che stampava il romanzo - tra
Pirandello e Verga, e della loro successiva, breve corrispondenza (non ancora
ben indagata). Verga si vedeva superato da una nuova forma di romanzo in cui si
«intuiva la presenza non più del personaggio che vive, anzi lotta per la vita,
ma del personaggio che si sente vivere. L'evento indicherebbe una radicale
trasformazione dell'ottica narrativa: quella che intercorre tra la deformazione
"strabica" dell'umorista e la focalizzazione convergente del verista» (Nino
Borsellino).
L'ambivalente duplicità dell'umorismo pirandelliano, qui già in atto, nella
scrittura, in un misto di narrazione, riflessione e commento, si manifesta però,
prima ancora, nell'atteggiamento di «distrazione» che la rende possibile. La
letteratura, per quanto sconsacrata e morta, rinasce e vive: essa - come l'uomo
- può essere grande solo a patto di riconoscere la propria piccolezza (senza
atteggiamenti da nuovi vati dannunziani); e la grande luce della sua piccola
lampada può accendersi perché, leopardianamente e umoristicamente, a fianco
della visione demistificante dell'arido vero, persiste, antinomicamente,
l'illusione stessa.
Tre gli adattamenti cinematografici. Nel 1925 Feu Mathias Pascal (negli USA The
living dead man), con la regia e la sceneggiatura di Marcel L'Herbier;
interpreti Ivan Mousjuokine, Lois Moran, Pierre Batcheff. Nel 1937 L'homme de
nulle part (in Italia Il fu Mattia Pascal, con la regia di Pierre Chenal;
sceneggiatura di Pierre Chenal, Christian Stengel, Armand Salacrou; dialoghi di
Roger Vitrac, con la revisione di Luigi Pirandello; interpreti Pierre Blanchard,
Isa Miranda. Nel 1985 Le due vite di Mattia Pascal, con la regia di Mario
Monicelli; sceneggiatura di Suso Cecchi d'Amico, Ennio De Concini, Amanzio
Todini e Mario Monicelli; interpreti Marcello Mastroianni, Flavio Bucci, Laura
Morante.
Una riduzione teatrale di Tullio Kezich fu messa in scena da Luigi Squarzina
(1974) e Maurizio Scaparro (1986). Nel 1960 andò in onda una riduzione
televisiva con la regia di Diego Fabbri.
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