In una lettera del 21 settembre 1921, Pirandello propose la «tragedia in tre
atti» Enrico IV, non ancora scritta, a Ruggero Ruggeri e, alla sua risposta
affermativa, la ultimò in due mesi (le fasi della composizione sono testimoniate
da alcuni manoscritti, tra i pochissimi pervenutici). Affidata alla neonata
Compagnia Ruggeri-Borelli-Talli, la tragedia andò in scena al Teatro Manzoni di
Milano, il 24 febbraio 1922, con Ruggero Ruggeri (Enrico IV), Gilda Marchiò
(Matilde, parte rifiutata da Lyda Borelli), Romano Calò (Belcredi), Egisto
Olivieri (Genoni). Ruggeri, per tutta la vita, riprese costantemente la parte,
facendone il proprio cavallo di battaglia.
Dopo alcune anticipazioni (la più ampia il finale del secondo atto in «Comoedia»,
l'opera comparve nel vol. IV della seconda raccolta delle Maschere nude: quest'edizione,
alquanto scorretta, fu rivista ed emendata da Pirandello per la successiva
edizione del 1933.
Nel giugno 1925 Pirandello mise in scena, con la Compagnia del Teatro d'Arte, un
allestimento che si segnalò per le imponenti scene di Virgilio Marchi e che fu
ripreso fino al 1928, con diverse distribuzioni delle parti.
La tela si leva su una scena che rappresenta «quella che poté essere la sala del
trono di Enrico IV nella casa imperiale di Goslar», ma con un particolare
stridente, che rivela l'ambientazione contemporanea della tragedia: «due grandi
ritratti a olio moderna; di grandezza naturale, avventano dalla parete di
fondo». Anche le prime battute di due valletti e quattro giovani aristocratici
smascherano immediatamente l'apparenza della scena e dei costumi, rivelando allo
spettatore (con il primo di una lunga serie di segnali metateatrali) che si sta
svolgendo un'imprecisata recita, non dissimile da «una rappresentazione storica,
a uso di quelle che piacciono tanto oggi nei teatri». Il dialogo iniziale
illumina l'ambientazione della rappresentazione: le vicende dell'imperatore
Enrico IV di Germania, la lotta per le investiture con papa Gregorio VII,
Canossa e la marchesa Matilde di Toscana; e suscita la percezione di una prima
alea, semischerzosa, di follia e l'attesa di un qualche evento connesso
all'arrivo di alcuni ospiti.
Il dialogo dei nuovi arrivati consente la ricostruzione dell'antefatto,
riassunto come segue dall'autore (nella citata lettera a Ruggeri): «Circa venti
anni addietro alcuni giovani signori e signore dell'aristocrazia, pensarono di
fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una "cavalcata in costume" in una
villa patrizia. Uno di questi signori s'era scelto il personaggio di Enrico IV;
e per rappresentarlo il meglio possibile s'era dato la pena e il tormento d'uno
studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva quasi per circa un mese
ossessionato. / Sciaguratamente il giorno della cavalcata, mentre sfilava con la
sua dama accanto nel magnifico corteo, per un improvviso adombramento del
cavallo, cadde, batté la testa e quando si riebbe dalla forte commozione
cerebrale restò fissato nel personaggio di Enrico IV. Non ci fu verso di
rimuovere quella fissazione, di fargli lasciare quel costume in cui s'era
mascherato: la maschera, con tanta ossessione studiata fino allo scrupolo dei
minimi particolari, diventò in lui la persona del tragico imperatore. / Sono
passati venti anni. Ora egli vive, Enrico IV in una villa solitaria: tranquillo
pazzo. Ha quasi cinquant'anni. Ma il tempo in lui non è più passato ai suoi
occhi e nel suo sentimento: s'è fissato in lui, il tempo. Egli già vecchio è
sempre il giovine Enrico IV della cavalcata. / Un bel giorno si presenta nella
villa a un nipote di lui, il quale seconda la tranquilla pazzia dello zio, a cui
è affezionatissimo, un medico alienista. C'è forse un mezzo per guarire quel
demente: ridargli con un trucco violento "la sensazione della distanza del
tempo". La tragedia comincia adesso».
Alla ricostruita corte di Enrico tv (il protagonista che non ha nome né identità
al di fuori di quella della parte in cui s'identifica) sono dunque giunti il
marchesino Di Nolli, suo nipote, e il dottor Genoni nonché la marchesa Matilde
Spina, un tempo da lui corteggiata, con l'amante Tito Belcredi e con la figlia
Frida. Donna Matilde, il dottore e Belcredi si fanno annunciare, vestiti con i
costumi dell'epoca, a Enrico IV, la cui, ritardata, entrata in scena acquista il
senso della temuta apparizione di una «terribile maschera» che non è «più una
maschera, ma la Follia». Enrico IV, che ha un evidentissimo trucco giovanile e
indossa «sopra la veste regale un sajo da penitente, come a Canossa», chiede
loro l'intercessione nei confronti del pontefice e rivolge loro dei discorsi -
sulle velleità, le finzioni, la maschera, il ricordo, la vita da cui egli è
escluso - carichi di sensi reconditi che impressionano e commuovono
particolarmente la marchesa.
Il secondo atto rappresenta i preparativi della messinscena terapeutica diretta
dal dottor Genoni: Di Nolli e Frida si sostituiranno ai ritratti dell'innominato
nei panni di Enrico IV e di donna Spina in quelli di Matilde di Canossa. Frida,
identica alla madre da giovane e vestita con il costume allora da lei indossato
(e dunque il «ritratto, vivo»), di notte e all'improvviso, si presenterà a
Enrico IV insieme con la marchesa. Nel frattempo, travolto dalle passioni
ridestate dall'irruzione degli altri nella sua vita di uomo solo, Enrico IV
rivela ai suoi consiglieri di non essere pazzo ma di simulare la pazzia in una
recita che, però, non ha fini di burla, ed è come vera, sia perché la pazzia
rivela le verità che la società nasconde, sia perché la finzione che costituisca
un inganno anche per se stessi diventa vera.
Il terzo atto inizia con l'illusione terapeutica, interrotta quando si diffonde
la notizia della finzione del protagonista. Il «grande Mascherato», senza più la
sua duplice maschera di Enrico IV e della Follia, subite «le accuse e il
dileggio per quella che tutti credono una sua beffa crudele», reagisce
aggrappandosi ancora alla parte e, nel contempo, viceversa, confessando la
verità: pazzo davvero (per la caduta che, rivela, fu provocata deliberatamente
da qualcuno dietro di lui), rinsavì dopo molti anni, ma non credette più
possibile tornare a vivere: a sedersi «con una fame da lupo a un banchetto già
bell'e sparecchiato». Egli, che già da giovane aveva dovuto sopportare il
dileggio altrui e la sopraffazione dell'epiteto di pazzo, assunse perciò
volontariamente il ruolo di folle e l'abito d'imperatore, «caricatura, evidente
e volontaria di quest'altra mascherata, continua, d'ogni minuto, di cui siamo i
pagliacci involontari». La tensione creatasi, ripetizione di quella passata,
sfocia in un'ultima, tragica, vera finzione del protagonista che, per
riprendersi la vita non vissuta, ghermisce la giovane Frida, come se fosse la
Matilde desiderata in gioventù. Belcredi, il quale non crede né alla pazzia,
nuovamente inscenata, né alle affermazioni del protagonista, interviene per
difendere la giovane, ma Enrico IV lo uccide con la spada e si richiude di
nuovo, «per forza» e «per sempre», nella sua parte, nella sua vera e finta
follia.
L'Enrico IV è un'opera centrale nel teatro di Pirandello in quanto, come Uno,
nessuno e centomila, che si può dire quasi parallelo (tanto che dal manoscritto
del romanzo, non a caso, alcune pagine - in parte già pubblicate, come
anticipazione, sulla rivista «Cronache d'attualità» - passarono alla tragedia),
è un riepilogo dei temi pirandelliani: la maschera, la verità e la finzione,
l'illusione, il vivere e il vedersi vivere, la follia. È un'opera centrale,
ancora, nella sua dimensione autoriflessiva, e quasi esplicitamente metateatrale.
Essa è, al contempo, un unicum o quasi, per più versi, per la sua natura di
tragedia, per il linguaggio elevato e l'ambientazione aulica, connessi alla
tradizione del dramma storico.
Enrico IV costituisce l'equivalente, novecentesco e pirandelliano, dell'Amleto
di Shakespeare. Ruggeri aveva riportato in scena dal 1915, prima ancora di
divenire interprete pirandelliano, un Amleto che, secondo la testimonianza di
Piero Gobetti, era pirandelliano ante litteram; inoltre, rappresentando l'Enrico
IV, Ruggeri «lavorò sulla sua tradizione: mantenne il costume nero del principe
danese», al punto dunque che determinante in quella rappresentazione «non tanto
una tradizione letteraria quanto una teatrale» (Franca Angelini).
La figura del «grande Mascherato» che recita, metafora dell'attore, la ricchezza
di virtuosismi tecnici della rappresentazione - basti pensare che il
protagonista recita contemporaneamente due e talora tre parti: «la Follia»
personificata e il «tragico imperatore» che, a sua volta recita la parte del
penitente - hanno fatto de l'opera un banco di prova per ogni grande attore (in
Italia, oltre a Ruggeri e a Lamberto Picasso, anche Renzo Ricci, Memo Benassi,
Salvo Randone, Tino Carraro, Romolo Valli, Giorgio Albertazzi), contribuendo
così alla sua grande fortuna, anche all'estero, pari almeno a quella dei Sei
personaggi.
Tre gli adattamenti cinematografici. Nel 1943 Enrico IV con la regia di Giorgio
Pastina; sceneggiatura di Pastina, Vitaliano Brancati, Fabrizio Sarazani e
Stefano Landi (Stefano Pirandello) musiche di Enzo Masetti; interpreti Osvaldo
Valenti Clara Calamai, Luigi Pavese, Enzo Biliotti. Nel 1983 Enrico IV, con la
regia di Marco Bellocchio; sceneggiatura di Marco Bellocchio con la
collaborazione di Tonino Guerra; musiche di Astor Piazzolla; interpreti Marcello
Mastroianni, Claudia Cardinale, Leopoldo Trieste, Paolo Bonacelli.
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