La composizione di quello che più volte Pirandello definì come una sorta di
romanzo testamentario, è lunga e tormentata, risalendo al 1910 e forse prima,
agli anni del saggio L'umorismo (la cui poetica di scomposizione è qui
realizzata), dello scritto Non conclude (fonte anche del titolo dell'ultimo
capitolo) e della novella Stefano Giogli, uno e due, considerata dai più il
diretto antecedente del romanzo. In questo caso il riuso di materiali e testi,
consueto in Pirandello, è dunque più complesso. Ricostruire (in «Sapientia», 30
gennaio 1915), che ingloba brani della novella Canta l'Epistola (1911), può
essere considerato la prima anticipazione, pur non presentata come tale.
Uno, nessuno e centomila fu pubblicato, a puntate su «La Fiera letteraria» (dal
13 dicembre 1925 al 13 giugno 1926) con una prefazione del figlio dell'autore,
Stefano, e con un lungo sottotitolo, «Considerazioni di Vitangelo Moscarda,
generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri»,
soppresso nell'edizione in volume lievemente modificata.
L'opera è divisa in otto libri, che si articolano in capitoli titolati di varia
lunghezza, in prevalenza brevi.
La definizione di romanzo testamentario vale nel senso di summa ma anche in
quello, più profondo, del fantasma di una scrittura dall'oltre, opera di un
morto-suicida, di un «fu», di un dimissionario dalla vita, come Mattia Pascal.
Nel romanzo, infatti, Vitangelo Moscarda, non più persona ma personaggio, narra
le vicende del «male» esistenziale della propria passata storia terrena e del
«rimedio» causa della propria trasfigurazione, del proprio passaggio in
quell'oltre; e, ancor più, le commenta ricorrendo a una pervasiva argomentazione
allocutoria.
Il protagonista racconta la frantumazione della propria identità, a partire da
una banale osservazione sul suo naso compiuta dalla moglie e dalla conseguente
apparizione, nello specchio, di un Moscarda dal naso storto, un doppio
inquietante perché finora sconosciuto alla sua coscienza. L'affermazione che
tale scoperta è «un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell'universo»,
ha un'apparenza di esagerazione comica, ma, in realtà, è commisurata alla
dimensione profondamente catastrofica che si apre alla coscienza del
protagonista e che possiamo definire, riprendendo la nota immagine de Il fu
Mattia Pascal, come uno «strappo nel cielo di carta» del teatrino dei pupi della
sua città di Richieri (strappo che trasforma un eroe classico in un moderno
Amleto).
Alla fine del libro primo Moscarda narra del suo proposito di conoscere i propri
innumerevoli doppi e di scomporne la forma, a partire dal primo: il Gengé
«carino sciocchino» della moglie Dida. L'autoanalisi dell'inetto, che si
sviluppa in rapporto a una temibile imago paterna, genera il ribelle in lotta
contro la prigionia delle forme di alcuni dei suoi più temibili doppi (il «lusso
di bontà» del padre il «buon figliuolo feroce» dei suoi concittadini); per
autorigenerarsi, individuarsi nella propria più vera e profonda identità, il
protagonista decide di uccidere il più noto dei suoi doppi: il Moscarda usuraio.
Egli finge dunque di sfrattare una coppia di suoi affittuari e, nel momento
dello sgombero forzato, alla folla che assiste fa comunicare l'avvenuta
donazione della casa e di una ricca somma. l'esito è però diverso da quello
sperato: Moscarda, anziché trasfigurarsi da usuraio in benefattore, si trova
costretto nella diversa, ma ugualmente infamante, forma di «pazzo».
Moscarda sente l'orrore angoscioso, mortale, della forma e comprende di esserne
prigioniero; sente e pensa di essere nessuno; vive dunque la morte come fosse
già morto. Al limite di morte e follia, Moscarda capisce il giuoco della vita,
grazie al suo intuito, al suo fiuto (il testo è intessuto di una fitta trama di
allegorie nasali-olfattive). Nella «nobile città di Richieri» impera l'aria
malsana dei bisogni del corpo e dell'anima, anzitutto il bisogno della
sopraffazione: consapevole (come quella di Stefano Firbo verso l'impiegato
Turolla) o meno (come quella di Dida); individuale o organizzata,
istituzionalizzata. Moscarda ribellandosi, prende a bersaglio tutti coloro (i
banchieri il notaio e poi i prelati e, in parte, il giudice) che ricoprono i
ruoli essenziali di una società fondata sul denaro e il potere e che, più in
generale, sono i miopi certificatori della realtà esistente, gli artefici della
sopraffazione delle forme e dei fatti, della pretesa di ridurre l'ideale (di
verità, religiosità, giustizia) nei limiti dell'accertabile. Il donchisciottesco
Vitangelo difende, viceversa, quell'ideale trasformandosi perciò
nell'annunciatore - anche a costo del sacrificio - di una sorta di nuovo vangelo
della pazzia, di una nuova verità della Vita fuori della trappola della Forma,
realizzando così il destino inscritto nel suo nome (angelo, annunciatore, della
Vita), evidente alter ego onomastico dell'autore (che interpretava il suo nome
come pyros anghelos).
In seguito alla scoperta del nulla che suscita in lui orrore, Moscarda vorrebbe
illudersi di nuovo, riacquistare una qualsiasi forma benefica che lo pacifichi
con sé e con gli altri; ma gli avvenimenti esterni e la sua coscienza superiore,
ormai inalienabile glielo impediranno. Dopo aver ritirato i capitali dalla sua
banca, Moscarda cerca la protezione del vescovo per difendersi dai soci e dal
suocero, dal loro tentativo d'interdizione legale di cui egli è messo al
corrente da Anna Rosa, un'amica della moglie. La virginale ma vitalistica Anna
Rosa, di cui tutti ben presto lo credono innamorato, è contemporaneamente
attratta e respinta da Vitangelo (dalle sue «curiosissime considerazioni sulla
vita») e un giorno, sul punto di cedergli, dopo averlo abbracciato, impaurita,
gli spara. Le circostanze del ferimento imprigionano l'incolpevole Vitangelo
nell'ultima forma del responsabile di un tentato stupro. Per sottrarsi a una
prigionia che rischia di diventare anche fisica, Moscarda è costretto a una
rinuncia che va oltre le sue iniziali intenzioni: liquidata la banca, dona ogni
avere, fonda un ospizio «in campagna, in un luogo amenissimo» in cui si
ricovera, come un qualsiasi mendicante. «Remissione», il titolo del penultimo
capitolo, compendia le vicende del protagonista: spossessamento, abbandono,
remissività, rinuncia alla rivalsa legale, perdono e, soprattutto, liberazione
del prigioniero che, evadendo definitivamente dalle forme, giunge alla
remissione del sintomo dello sdoppiamento, ineliminabile finché dura il male di
vivere. Vitangelo (non più persona, maschera, nel teatrino di Richieri, ma
personaggio assunto nell'oltre, nel paradiso della natura e dell'arte) non si
specchia più, non si vede più, vive, apparentemente frantumato nelle cose in cui
si proietta, in realtà, attraverso le sue estasi paniche, finalmente indiviso,
parte di una Vita che non conclude, di un Tutto infinito. La totale remissione,
la rinuncia, non indica, dunque, un esito esclusivamente negativo perché in essa
sono anche contenute la salvezza e la nuova, diversa, identità della voce
narrante. Abbandonata l'identificazione con il Padre, con la logica del
possesso, del dominio, della Forma mortifera Vitangelo s'identifica all'opposto
con la logica dello spossessamento oblativo, della Vita in quanto totalità
materna fonte di creatività e scrittura.
«È tutto sperimentato e sofferto», scriveva il figlio Stefano presentando
l'opera come un «breviario di fede» nell'arte. In questa dimensione
metaletteraria, nell'allegoria che raffigura la biografia privata e artistica di
Pirandello, il vangelo della follia annunciato da Moscarda è il vangelo
dell'arte, della Vita del «Dio di dentro» (distinto dal «Dio di fuori» che ne è
la forma) raggiunto nell'ascesi e nel mistico panismo finale. Moscarda ha in sé,
come Francesco d'Assisi, il «candore» (Bontempelli), fusione di religiosità
naturale e poesia che, non potendo essere compresa nella degradata e infernale
città di Richieri, viene confinata in un ospizio che diverrà, nei Giganti della
montagna, la Villa della Scalogna, dove Cotrone, dimissionario dalla vita come
Moscarda, si rinchiuderà con il fez in testa per «il fallimento della poesia
della cristianità».
Uno, nessuno e centomila è umoristico romanzo di scomposizione: della
personalità; della forma narrativa realistica del romanzo ottocentesco (mediante
il commento metanarrativo e l'argomentazione saggistica); del romanzo tout
court, nei suoi confini testuali (il personaggio che, nel secondo libro,
fuoriesce dal testo in cerca di lettore e questi che, viceversa, è risucchiato
nel testo). La chiave interpretativa, tuttavia, non può essere esclusivamente
novecentesca e parodica (anche per Moscarda, che non è solo un antieroe e un
inetto) perché nel testo convivono due diversi piani di scrittura (generati
dalle istanze antinomiche del pensare e del sentire).
Nel romanzo l'ascensione di Vitangelo, il suo passaggio dal «male» di Richieri
al «rimedio» del Paradiso dell'arte, corrisponde infatti a un analogo movimento
sul piano dello stile e della letterarietà: dall'iniziale registro
comico-parodico, quotidiano e realistico, basso, a quello degli ultimi libri,
alto, in una prosa lirica - fortemente figurale, eufonica e ritmata sino alla
rima - e dal prezioso lessico letterario.
Uno, nessuno e centomila è romanzo, non meramente parodico ma umoristico, del
«misticismo laico-mondano» (come lo ha definito Renato Barilli, riprendendo
impostazioni e spunti di Adriano Tilgher e Giacomo Debenedetti).
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